“Silence” di Martin Scorsese

Il film sulla persecuzione dei padri gesuiti e la comunità cristiana nel Giappone del ‘600 è nelle sale italiane dal 12 gennaio

Era dal 1988 che Martin Scorsese – regista italo-americano autore di film celebri tra cui Taxi Driver, Toro scatenato, L’ultima tentazione di Cristo, Hugo Cabret – pensava di portare sullo schermo Silence, il romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō (ed. Corbaccio), che ricorda il dramma dei sacerdoti gesuiti e dei cristiani vittime di torture in Giappone nel ‘600.

La storia
Siamo nel 1643. Due giovani padri gesuiti europei, Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garupe (Adam Driver), giungono di nascosto in Giappone, per trovare notizie sul confratello padre Christovao Ferreira (Liam Neeson) e per proseguire nell’annuncio del Vangelo sull’esempio di Francesco Saverio. È l’epoca Edo, segnata da forti repressioni nei confronti dei cristiani e dei sacerdoti; i villaggi sono perquisiti e non viene risparmiata alcuna forma di tortura, sino alla crocifissione. I due missionari affrontano il pericolo, muovendosi nel cuore della notte e con l’appoggio dei fedeli locali, che non smettono di cercare il conforto della Parola. La vicenda ha un importante punto di svolta quando il protagonista padre Sebastian viene rapito e imprigionato. È così messo dinanzi alla scelta dell’abiura, un passo sollecitato da pressioni psico-fisiche ma anche dall’assistere alle torture dei fedeli.

Tra “caduta” e misericordia
Con Silence Martin Scorsese conferma ancora una volta di essere un grande autore, capace di affrontare generi cinematografici diversi e tematiche complesse, sempre con vigore espressivo e padronanza stilistica. Silence è una storia spinosa e sofferta, il racconto di testimoni di fede uccisi per non rinunciare a Cristo, ma anche il racconto di sacerdoti “caduti”, che hanno abbandonato la fede – i cosiddetti lapsi, termine che si riferisce ai cristiani apostati nelle persecuzioni ai tempi dell’Impero romano -, perché incapaci di sopportare il peso della violenza, la barbarie dell’intimidazione.
A dare volto al protagonista in modo intenso e convincente è l’attore americano Andrew Garfield, che ha saputo calarsi nel ruolo di padre Sebastian mostrando la forza e l’entusiasmo della sua fede, ma anche la fragilità umana dinanzi all’angoscia; una narrazione del tormento interiore, oscillante tra sofferenza e ricerca della voce di Dio. Una voce di Dio che si fa silenzio, che si propaga nel silenzio. Sebastian, imprigionato, prega, si aggrappa alla croce, per sfuggire alla crudeltà. Spinto e percosso sino alle soglie dell’abiura, il gesuita non smette di chiedere un segno, una parola di conforto da Dio. E una voce sembra risuonare nel silenzio, proprio nel momento della “caduta”. Che sia l’abbraccio misericordioso di Dio dinanzi al grido di un figlio, proprio come avvenne per quel Figlio morto in croce? Padre Sebastian scivola nell’apostasia, accetta di salvare i fedeli torturati e la sua vita allontanandosi dalla croce, così come era avvenuto poco tempo prima a padre Christovao Ferreira – figura realmente esistita -, apostata, sposato con una giapponese e disposto ad abbracciare la religione buddista.

Martin Scorsese

Il regista Scorsese è attento a entrare nelle pieghe del tema, focalizzando l’attenzione sugli accadimenti, ma soprattutto sulla dimensione interiore del protagonista, sul dramma che divampa nel cuore del gesuita, combattuto tra la propria fede e la rinuncia, il disconoscere la propria identità. Scorsese, con un’inquadratura ci invita a superare le apparenze, le letture immediate. Affonda la macchina da presa nell’animo di un uomo, di uomo di fede.