Fra’ Marcellino da Capradosso

Testimoni del Risorto 24.01.2018

Può capitare di sognare la vita religiosa a occhi aperti, con magari un finale di eroico martirio in mezzo agli infedeli, e finire invece nella celletta accanto, ad assistere un confratello tubercolotico; e farlo con tanto amore e tanta dedizione da esserne contagiato; e farti ugualmente santo perché, per dirla con Dante, “e ‘n la sua volontade è nostra pace”: ecco in sintesi la non lunga vita di fra’ Marcellino da Capradosso, venerabile da novembre 2017. Nasce il 22 settembre 1873 a Villa Sambuco di Castel di Lama (Ascoli Piceno), in una famiglia che non solo non naviga nell’oro, ma che addirittura tribola a metter insieme il pranzo con la cena. In casa Maoloni bisogna esser pronti a far trasloco secondo le necessità e in base a dove si trova lavoro; tutti devono metter le braccia a servizio dell’economia familiare, altrimenti il bilancio non quadra; non si ha quindi tempo da perdere tra i banchi di scuola, e per leggere e scrivere ciascuno si deve arrangiare. È così che Giovanni (com’è stato chiamato al battesimo), poco dopo la nascita deve traslocare con tutta la famiglia a Capradosso, una ventina di chilometri più a nord, che sarà considerato, a tutti gli effetti, il suo paese. Comincia per tempo a pensare alla vita religiosa, portato com’è alla devozione e alle pratiche di pietà e nessuno si stupisce a vederlo far progetti in tal senso. Così rinuncia ad ogni progetto di formarsi una famiglia, malgrado ci potrebbe essere qualcuna attratta dai suoi modi garbati e dal suo bell’aspetto; pazientemente attende, continuando a lavorare nei campi, che il fratello minore abbia forze sufficienti per poterlo sostituire, secondo il desiderio di papà e solo alla soglia dei 29 anni (allora considerata quasi un’età adulta), entra nel convento cappuccino di Ascoli Piceno: lo fa di notte, quasi di nascosto, come un ladro, perché sa che il fratello maggiore Vincenzo non condivide affatto questa sua scelta. E lo dimostra, rincorrendolo in convento e provando in tutte le maniere, addirittura a suon di botte, a riportarselo a casa, mentre Giovanni incassa in silenzio e non si sogna neppure di tornare. Inizia il noviziato con il nome di Fra Marcellino da Capradosso e sembra che anche il diavolo ce la metta tutta per fargli cambiare idea: sono numerose le testimonianze, accertate dagli stessi superiori, di questi attacchi diabolici da cui Marcellino esce vittorioso, grazie anche alla Madonna in persona che viene a fargli forza. Il 27 aprile 1903 fa la professione semplice ed è assegnato al convento di Fermo: naturalmente come semplicissimo frate cercatore, perché le sue scarse nozioni scolastiche gli impediscono di sognare più in grande, anche se pare non ne senta la necessità, contento ed appagato delle mansioni di ortolano, portinaio e questuante che gli sono affidate, condite da preghiera, penitenza e soprattutto tanta gioia, che distribuisce a piene mani, offrendo a tutti una parola di speranza e un gesto di consolazione. La gente impara ad apprezzare questo fraticello, gioioso e gentile, che parla così bene di Dio e della sua misericordia e si abitua anche a piccoli segni che proprio normali non sono, anche se in perfetto stile dei fioretti francescani, come le fave marce che si rigenerano, le botti vuote da cui si spilla vino o la botte pesantissima che riesce a trasportare da solo.  Se nel questuare lo aiuta la sua umiltà e la sua predisposizione a trattare con la gente e se nel coltivar l’orto può far ricorso alla sua esperienza di lavoratore dei campi, decisamente male gli va invece come aiutante di cucina e sono costretti a mutargli mansione in fretta, per non rovinare lo stomaco all’intero convento. Si trova anche a suo agio nel curare i malati, perché di umanità ne ha da vendere, di generosità pure, tutte condite con la sua disponibile carità. Così affidano alle sue squisite premure padre Serafino da Pollenza, un giovane cappuccino gravemente malato di tubercolosi che abita nel convento di Montegiorgio, al cui fianco resta per sei mesi. Terminati i quali chiede di andare in missione, possibilmente in Brasile, perché ancora non sa che già è avvenuto il contagio. Nel febbraio 1909 è colpito da peritonite tubercolare ed inutile è l’intervento chirurgico cui viene sottoposto. “Miei cari fratelli e buoni cittadini, vi raccomando di mantenere la fede cristiana e i buoni costumi, la vera concordia e la vera carità di Gesù Cristo”: è il testamento spirituale che lascia alla popolazione di Fermo, in cui muore il giorno 26, a soli 36 anni, con una fama di santità che ancora non si è spenta.