Titus Zeman – 2

Testimoni del Risorto 18.04.2018

La terza spedizione di don Titus Zeman non nasce sotto una buona stella, a cominciare dalle due guide, che sono state fermate dalla polizia austriaca: una sola è stata rilasciata e, manco a farlo apposta, proprio quella meno esperta. Il gruppo che vuole varcare il confine, poi, è molto eterogeneo, non solo per provenienza (non tutti sono salesiani) ma soprattutto per età e non tutti sono in condizioni psicofisiche ottimali per affrontare con coraggio il lungo viaggio. Infine, le condizioni climatiche sembrano particolarmente ostili, perché le piogge hanno fatto ingrossare il fiume Morava, rendendone il guado se non proibitivo abbastanza difficoltoso. Così il viaggio del 7 aprile 1951 si trasforma in un incubo e il gruppo, costituito da 22 fuggitivi, si sgretola proprio sulle sponde del Morava, che i più anziani e i più paurosi si rifiutano di attraversare. Nella fanghiglia creata dalle recenti piogge inizia così l’operazione di rientro, che non sfugge alla sorveglianza particolarmente attenta della polizia slovacca, che riesce così a mettere le mani su sedici di loro, compreso don Titus: per tutti, ma soprattutto per lui, iniziano gli interrogatori, con razione quotidiana di pestaggi e torture di vario genere, tutte finalizzate ad estorcere le loro confessioni ed a dissuadere chiunque dall’imitare le loro velleità di fuggire all’estero. Esce dalla stanza degli interrogatori con alcuni denti spezzati, un trauma cranico che gli fa vivere alcuni giorni come in uno stato di allucinazione, fratture e tumefazioni diffuse su tutto il corpo. Anche perché, nella speranza di alleggerire la posizione degli altri, ha voluto addossarsi tutta la responsabilità dell’operazione, firmandone anche apposita confessione scritta, nella quale gli fanno però subdolamente dichiarare anche di essere spia e agente Cic (l’ufficio del controspionaggio degli Stati Uniti). Il processo viene celebrato a febbraio 1952 e don Titus è condannato a morte per spionaggio, alto tradimento e attraversamento illegale dei confini. Si presenta in aula smagrito di 16 chili, completamente imbiancato per i continui spaventi e per la minaccia ripetuta all’infinito di essere giustiziato da un momento all’altro, ma con la forza ancora per gridare la sua innocenza rispetto alle accuse che gli sono mosse e l’esclusiva motivazione religiosa degli espatri da lui effettuati, con l’unico scopo di consentire ai chierici e ai novizi salesiani di terminare la loro preparazione teologica e di essere ordinati sacerdoti. Alla lettura della sentenza il tribunale, in modo inaspettato, “prendendo in considerazione certe ragioni”, commuta la pena capitale in 25 anni di reclusione: nessuno capirà mai il reale motivo di questa inversione di rotta della sentenza, che qualcuno chiama “miracolo”, anche per le preghiere incessanti con cui il mondo salesiano lo ha avvolto durante tutta la detenzione. Per i suoi aguzzini, però, don Titus continua ad essere un “Mukl” (abbreviazione in slovacco di “uomo destinato all’eliminazione”), rinchiuso ora nel carcere di Ilava, e, successivamente, di Mírov e di Jáchymov. In quest’ultima località viene destinato al campo di lavoro forzato e rinchiuso nella cosiddetta “Torre della morte”, dove è costretto alla triturazione manuale e senza protezione dell’uranio radioattivo, con lunghi periodi in cella di isolamento e con una razione di cibo circa sei volte inferiore a quella degli altri detenuti. D’altronde don Titus, come “fanatico sostenitore della politica del Vaticano e dell’alta gerarchia ecclesiale”, ha una pessima reputazione presso i suoi carcerieri, ai quali non sfugge che “tra i detenuti tenta di spargere idee con le quali intenzionalmente disturba la loro rieducazione”. Perché la “rieducazione” (o, meglio, il lavaggio del cervello e, possibilmente, l’abiura delle proprie idee religiose) su di lui non funziona proprio: lo devono ammettere, quasi con rassegnazione, gli stessi carcerieri, che redigendo un rapporto devono scrivere che “il suo atteggiamento verso il governo democratico-popolare è totalmente negativo e non lo nasconde per niente. Considera la condanna ingiusta e troppo alta. È abbonato alla stampa quotidiana, la legge, però da essa non trae niente per cambiare se stesso”, mentre invece sono obbligati a riconoscere che “il suo atteggiamento verso il lavoro è buono e da questo punto di vista si può contare su di lui, tanto che i suoi risultati di lavoro hanno superato il 100%!”.

(2ª parte - continua sul prossimo)