Chacas dolce Chacas…

L’esperienza di volontariato di Chiaffredo Rosso e Maria Grazia Monasterolo in un villaggio del Perù

Centallo. A dodici ore d’auto da Lima, tra le montagne del Perù, c’è un villaggio contadino di 1.500 anime, a 3.400 metri di altitudine, in cui lavorano e vivono 60 volontari italiani. Prestano la loro opera nelle strutture della comunità: l’ospedale, i laboratori di artigianato per i figli dei “campesinos”, i corsi professionali per ostetriche e infermiere, i cantieri per la costruzione di infrastrutture (le tre centraline idroelettriche che hanno portato la luce al villaggio). Sono medici, insegnanti, professionisti, molti con le loro famiglie. La maggior parte sono giovani tra i 20 e i 40 anni. Nessuno di loro percepisce uno stipendio, né contributi per la pensione. Si fanno bastare vitto e alloggio. Quel paese si chiama Chacas ed è una sorta di utopia realizzata, che si sviluppa attorno alla missione fondata da padre Ugo De Censi, sacerdote salesiano. Ai volontari permanenti si affiancano - per tutto l’anno - altri volontari in “ferma breve”, che confluiscono in questa terra povera e isolata attirati dal desiderio di affrontare un’esperienza di vita comunitaria, di servizio, di condivisione e di carità, lontana nel tempo e nello spazio dalla nostra società dei consumi, dalle sue comodità e dai suoi vizi. Fanno tutti parte dell’Operazione Mato Grosso, organizzazione laica non governativa che si prende cura di una novantina di comunità sparse in tutto il Sudamerica, tra Perù, Brasile, Bolivia ed Ecuador. Tra questi volontari ci sono anche due centallesi, Chiaffredo Rosso e Maria Grazia Monasterolo, che si sono arrampicati fino alla missione di padre Ugo già in due occasioni, tra il 2013 e il 2014, fermandosi complessivamente per circa tre mesi. Chiaffredo è medico in pensione (che ha raggiunto a gennaio 2013 al compimento dei 65 anni), Maria Grazia insegnante di scuola elementare. Tutti e due hanno dato il loro contributo mettendo a disposizione le proprie capacità. “Da giovane ero intenzionato a partire per l’Africa, dove avrei voluto svolgere la mia professione - racconta Chiaffredo -. Ma i casi della vita mi hanno portato a fare altre scelte. Arrivato all’età della pensione, quel sogno è tornato a farsi largo. Per questo, mi sono iscritto a un corso di medicina tropicale. Lì ho incontrato un docente di Medici senza frontiere, che mi ha parlato di Chacas e mi ha convinto a cambiare meta, perché - a differenza dell’Africa - ci sarebbe stato lavoro anche per mia moglie”. Chiaffredo si è dedicato al servizio in ospedale (una struttura che serve una popolazione di circa 50 mila persone e dispone di 50-60 posti letto) a fianco di altri 3-4 colleghi. “Mi occupavo prevalentemente di medicina interna e di prima emergenza. Lavoravo circa 9-10 ore al giorno più un turno di notte su quattro. Le malattie più frequenti sono legate al tenore di vita dei pazienti, come quelle provocate da parassiti che da noi sono stati debellati da 40 anni. Colpa delle deiezioni animali che penetrano nelle falde acquifere”. Maria Grazia è stata impegnata in un ventaglio di attività: ha cucinato per i medici dell’ospedale (“arrangiandomi con una stufa a legna e il poco che c’era nell’orto”); ha insegnato l’Italiano ai figli dei volontari; ha portato cibo e medicinali alle famiglie povere e agli anziani che vivono nei dintorni (fino a due ore e mezzo di cammino a piedi), accompagnata da un interprete che parlava il dialetto Quechua; ha tenuto lezioni di cucina italiana; ha aiutato a sparecchiare nella mensa della parrocchia. “Ci svegliavamo alle 6 e la nostra giornata si concludeva alle 21,30” - dicono entrambi -. Ma non sentivamo la fatica perché, in quel contesto, era una cosa normale: tutti quanti facevano la nostra stessa vita, volontari e abitanti del luogo. E tutti ci sentivamo motivati a fare qualcosa di utile per la comunità. Ci contagiavamo l’uno con l’altro”. Chiaffredo parla con stupore specialmente dei volontari più giovani. “Credono in un altro stile di vita, diverso da quello che conosciamo, e lo mettono in pratica. Cercano l’essenziale. Sono animati da spirito di solidarietà e dedizione al bene comune. Non avrei mai immaginato di incontrarne così tanti”. Anche i locali gli sono entrati nel cuore. “Sono come eravamo noi una volta. Persone semplici, di grande dignità, anche nella sofferenza”. A Chacas, grazie alla missione e all’operazione Mato Grosso, il tenore di vita è decisamente superiore a quello di altri villaggi della sierra andina. Non si soffre la fame e si può coltivare la speranza in un futuro migliore. I prodotti artigianali vengono commercializzati in Italia e negli Stati Uniti e i proventi tornano interamente in loco. Fondamentale - per la sopravvivenza del modello Chacas - è anche la raccolta di fondi e beni di prima necessità che i volontari svolgono una volta tornati in Italia. Un piccolo esempio lo hanno fornito, nei giorni scorsi, Chiaffredo e Maria Grazia organizzando presso le comunità di Mellea e Centallo una raccolta di farmaci non più utilizzati, ma non ancora scaduti, che verranno spediti con un container, insieme a quelli in arrivo da altre parti d’Italia, verso la missione di padre Ugo. Sempre a Mellea è nata un’iniziativa di adozione a distanza dei bambini che entrano nella scuola professionale. Bastano 180 € e si contribuisce al loro sostentamento per un anno. Quando li abbiamo incontrati, i due volontari centallesi erano di ritorno da una scuola di Valdieri con la quale sono in contatto da un po’ di tempo e che ha effettuato una raccolta di materiale didattico per la scuola di Chacas. I ragazzi peruviani hanno contraccambiato con un manufatto costruito nel loro laboratorio di artigianato. “Noi siamo soltanto in due - conclude Maria Grazia -, avremo bisogno di giovani e delle loro idee per fare qualcosa di più, anche qui da noi, in provincia di Cuneo”. Presto, all’inizio del 2015, torneranno per una terza volta a Chacas. E non vogliono presentarsi a mani vuote.