Padre Lino da Parma

Testimoni del Risorto 14.05.2014

Galeotto è stato il libro sulla vita di San Francesco, che lo zio vescovo gli regala per la Cresima. È così, infatti, che Alpinolo Ildebrando Umberto Maupas, si innamora di San Francesco e di Madonna Povertà, lui, figlio di famiglia aristocratica, discendente della nobiltà francese trapiantata in Croazia. Il suo ingresso nel convento di Kosljun non è però accompagnato dalla marcia trionfale: né capito né amato, dopo i primi voti è costretto a tornare a casa, perché i superiori lo ritengono inadatto alla vita religiosa, un po’ per la salute fragile, ma soprattutto per il suo carattere, giudicato “pericolosissimo e di grande volubilità”. Non gli è facile “rifarsi una vita” fuori dal convento, perché lo accompagna ovunque una mancanza di senso e un vuoto interiore che non gli danno pace, anche se riesce a trovar subito lavoro nella Guardia di finanza. Sogna di poter tornare in convento, ma neppure l’intercessione dello zio vescovo riesce ad ottenergli la riammissione. Ci riesce invece un suo vecchio professore, l’unico frate che lo aveva capito, e al giovane Alpinolo viene data una seconda possibilità, questa volta nel convento di Fucecchio, in Toscana. Ricomincia il secondo noviziato e, di convento in convento, arriva a quello del Colle di Covignano, presso Rimini, dove viene ordinato prete l’8 dicembre 1990. Di qui lo spediscono a Parma, dove resterà per tutta la vita, tanto da essere ancor oggi conosciuto come padre Lino da Parma. Lo accompagna fin dall’infanzia una malattia agli occhi, per cui da un occhio non ci vede più e dall’altro poco; in compenso, il suo cuore “vede” molto bene i bisogni dei fratelli e batte ininterrottamente per loro. Lo chiamano “il frate dei morti”, perché sono suoi i funerali della povera gente, di quelli che non hanno nessuno. Li va a cercare nei quartieri più malfamati e fatiscenti di Parma, dove neanche le guardie hanno il coraggio di girare e dove i preti non sono graditi; solo per lui fanno un’eccezione, perché in quelle catapecchie padre Lino non va a chiedere o a riscuotere, ma a portare. Dalle capaci tasche del suo saio tira fuori tozzi di pane, dolci e medicinali, tutto quanto riesce a recuperare dalla carità dei ricchi. In convento lo sorvegliano a vista e sono obbligati a mettere sotto chiave la dispensa e il guardaroba, per salvarle dai continui “saccheggi” di padre Lino. Che accetta molto volentieri gli inviti a pranzo dei benestanti, solo perché riesce a far scivolare in una capace borsa quanto gli portano in tavola o quanto vede avanzato sulle tavole altrui, che subito va a distribuire nei tuguri, scegliendo di preferenza quelli in cui ci sono dei bambini o dei malati. E i commercianti di Parma gli lasciano “far la spesa” nei loro negozi, naturalmente senza pagare il conto, perché di soldi quel frate non ne ha mai, dato che tutto distribuisce non appena riceve. Se non va da loro, perché non può andare contemporaneamente da tutti, sono i poveracci che lo vanno a cercare in convento, creando scompiglio tra i confratelli, ormai rassegnati a sapere che, in barba ad ogni clausura, nella cella di padre Lino venga a dormire qualche poveraccio, raccattato nelle sere d’inverno per strada, al quale naturalmente cede il suo pagliericcio e la coperta, mentr’egli si accuccia sul nudo pavimento. Per questo tirano un sospiro di sollievo quando viene nominato cappellano delle carceri e vi si trasferisce, mentre lui non fa una piega ad adattarsi al suo nuovo alloggiamento: una cella del tutto simile a quella degli altri detenuti, recluso fra i reclusi. Che sono allergici ai preti ed a quanto sa di chiesa, ma non a padre Lino, perché da lui si sentono amati. Si spende infatti per migliorare le loro condizioni carcerarie, per addolcire e umanizzare le guardie, per trovare un lavoro quando escono dal carcere, addirittura portando un neonato in carcere, perché il padre detenuto lo possa conoscere. Arriva ad infiltrarsi nei cortei anticlericali per sedare le risse e calmare gli animi: tanto lui è “il frate più buono che ci sia” e nessuno oserebbe toccarlo neppure con un dito. Il 14 maggio 1924, dopo una giornata dal ritmo sostenuto come sempre, viene stroncato da un infarto all’interno del pastificio Barilla, dov’è andato a cercar lavoro per uno dei suoi tanti disoccupati. Devono portar la salma all’interno del carcere, per l’ultimo abbraccio dei suoi detenuti, che gli preparano la bara con le loro mani, mentre tutta Parma si ferma per salutare quel frate, che seppur spettinato, mal rasato e dal saio logoro e stinto, era “fortemente indiziato di santità”.