Per la prima volta, un Papa apre l’assemblea dei vescovi italiani. E i vescovi ricevono in regalo quello che Francesco definisce un “gioiello”, che “è come se fosse stato pronunciato ieri”: il discorso rivolto da Paolo VI, che il prossimo 19 ottobre verrà proclamato beato, il 19 ottobre di 50 anni fa, allo stesso uditorio: “È venuto il momento di dare a noi stessi e di imprimere alla vita ecclesiastica italiana un forte e rinnovato spirito di unità”, vi si legge, il servizio all’unità è “questione vitale” per la Chiesa. “Nel nostro contesto spesso confuso e disgregato - gli fa eco oggi Papa Francesco (per il testo integrale del discorso, clicca qui) - la prima missione ecclesiale rimane quella di essere lievito di unità, che fermenta nel farsi prossimo e nelle diverse forme di riconciliazione: solo insieme riusciremo ad esser profezia del Regno”. Poi la denuncia: “La mancanza o la povertà di comunione costituisce lo scandalo più grande, l’eresia che deturpa il volto del Signore e dilania la sua Chiesa. Nulla giustifica la divisione: meglio cedere, meglio rinunciare piuttosto che lacerare la tunica e scandalizzare il popolo santo di Dio”. Poco più di mezz’ora, il discorso del Papa, lungamente applaudito dall’assemblea, che subito dopo si è riunita “a porte chiuse” con il Vescovo di Roma per un confronto aperto e schietto. Tre i “tratti comuni” dei vescovi tratteggiati nell’identikit del Papa, in un discorso giocato sui chiaroscuri tra le tentazioni e le virtù. Con indicazioni precise ed esigenti, indirizzate ai presuli. Ma in quelle tre piste di riflessione ogni singolo credente può trovare motivi di discernimento personale, così come ogni porzione di popolo di Dio può trovare spunti di discernimento comunitario e di costruzione pastorale.
La “legione” delle tentazioni.
Sono una “legione” le “tentazioni che cercano di oscurare il primato di Dio”: “La tiepidezza che scade nella mediocrità, la ricerca del quieto vivere che schiva il sacrificio”, la tentazione della “fretta pastorale” o dell’accidia di chi considera “tutto un peso”, la presunzione di chi si illude di “far conto solo sulle sue forze, sull’abbondanza di risorse e strutture, sulle strategie organizzative che sa mettere in campo”. “Se ci allontaniamo da Cristo, se l’incontro con Lui perde la sua freschezza, finiamo per toccare con mano soltanto la sterilità delle nostre parole e delle nostre iniziative”, ha ammonito il Papa, secondo il quale “i piani pastorali servono, ma la nostra fiducia è riposta altrove”. Di qui l’invito a tenere “fisso lo sguardo” su Gesù, che “è il centro del tempo e della storia: è Lui ciò che di più prezioso abbiamo da offrire alla gente, pena il lasciarla in balìa della sofferenza se non della disperazione”.
L’antidoto è l’esperienza ecclesiale.
Essere sacramento di unità, per la Chiesa, “richiede un cuore spogliato di ogni interesse mondano, lontano dalla vanità e dalla discordia”, ha ammonito il Papa. Tante, anche in questo caso, le tentazioni da sfuggire, come “la gestione personalistica del tempo, le chiacchiere, le mezze verità che diventano bugie, la litania delle lamentele, la durezza di chi giudica senza coinvolgersi e il lassismo di quanti accondiscendono senza farsi carico dell’altro”, la gelosia, l’invidia che “genera correnti, consorterie, settarismo”. “Quanto è vuoto il cielo di chi è ossessionato da se stesso”, ha denunciato il Papa, secondo il quale l’antidoto a queste tentazioni è proprio “l’esperienza ecclesiale”, la capacità di “conservare la pace anche nei momenti più difficili”, senza lasciarsi “sopraffare dai conflitti” e senza “cullarsi nel sogno di ricominciare sempre altrove”. Per il Papa, serve a capire che “la forza di una rete sta in relazioni di qualità, che abbattono le distanze e avvicinano i territori”. Di fronte a sacerdoti “spesso provati” o scoraggiati, i vescovi hanno il dovere di educarli a “non fermarsi a calcolare entrate e uscite”, perché “il nostro, più che di bilanci, è il tempo di quella pazienza che è il nome dell’amore maturo”.
“Ascoltate il gregge”.
Perché “il popolo santo di Dio ha il polso per individuare le strade giuste”. Quello di Francesco è un messaggio di fiducia nel laicato, e il suo appello è a riconoscere “spazi di pensieri, di progettazione e di azione alle donne e ai giovani”. È forse questa, per il Papa, la tentazione più pericolosa. Bisogna avere “lo sguardo di Dio sulle persone e sugli eventi”, non si può vivere “nell’attesa sterile di chi non esce dal proprio recinto e non attraversa la piazza, ma rimane sul campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada”. Il Regno di Dio è “più grande dei nostri schemi e ragionamenti”, e spesso è “umile e nascosto nella pasta dell’umanità”. Ci vogliono pastori “liberi”, capaci di affiancare le persone “lungo le notti delle loro solitudini, delle loro inquietudini e dei loro fallimenti”, fino a “riscaldare il loro cuore” e aiutarle ad intraprendere “un cammino di senso che restituisca dignità, speranza e fecondità alla vita”. Tre i “luoghi” additati dal Papa ai vescovi come prioritari per “la vostra presenza”: la famiglia, i disoccupati, i migranti. La famiglia, “fortemente penalizzata dalla cultura dei diritti individuali”, che “trasmette la logica del provvisorio”. La “sala d’attesa affollata di disoccupati, di cassintegrati, di precari, dove il diritto di chi non sa come portare a casa il pane si incontra con le difficoltà di chi non sa come portare avanti l’azienda”. Prendersi cura di queste persone, per il Papa, è “una responsabilità storica”, e di fronte alla quale occorre “non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione”. Altro imperativo, “abbracciare i migranti”. C’è bisogno di “un nuovo umanesimo”, ha concluso il Papa, esortando i vescovi ad “andare incontro a chiunque chieda ragione della speranza che è in voi”.