Parola d’ordine: innovazione. Non c’è convegno, discussione, intervista, intervento che non chiarisca quale sia la porta attraverso la quale l’Italia può rilanciare la propria economia, e quindi superare la lunghissima crisi economica che l’attanaglia dal 2008. Innovazione. Una parola lunga e chiara, che dà un senso di nuovo, di moderno, di cose da fare necessariamente.
Ma che vuol dire in pratica? Boh, tutto e niente. Un piccolo imprenditore che partecipasse a uno dei tanti convegni che hanno nel titolo la parola innovazione, tornerebbe in fabbrica frastornato, incitando il proprio personale a “fare innovazione”, e sperando che qualcuno abbia idee più chiare delle sue.
Perché innovazione, appunto, vuol dire tutto e niente. È semplicemente la capacità di cambiare le cose per migliorarle: per tagliare un costo, per aumentare la produttività, per razionalizzare la logistica, per sviluppare il marketing… Per ideare nuovi prodotti più apprezzati dal mercato, o che s’inventino un mercato. Insomma, non dormire sugli allori, non cullarsi sulle formule “da 120 anni fedeli alla ricetta”, non aspettare passivamente che la concorrenza ti sommerga e i clienti ti abbandonino.
Insomma, un’ovvietà. Chi non risica, non rosica. Ci sono settori industriali che dell’innovazione sfrenata fanno la loro bandiera, come l’elettronica: vent’anni fa Motorola e Nokia erano leader mondiali, si sono assopite e sono rapidamente finite male: ora comandano le ben più innovative Apple e Samsung. Vent’anni fa i primi cellulari (idea innovativa!) erano dei mattoni pesanti e ingombranti; ora in dieci centimetri ci sta pure un computer, una macchina fotografica, una cinepresa, uno stereo… E basta un macchinario ben progettato per trasformare un lavoro ripetitivo e ad alta intensità di manodopera, in uno molto più efficace e meno costoso.
È così che si trasforma un gioiello artigianale del made in Italy come il tortellino, in un successo mondiale; è così che l’agrumicoltura siciliana va in crisi profonda mentre quella spagnola si meccanizza e guarda più ai clienti che alla mera produzione. La seconda ha fatto continua innovazione, la prima no. E ora paga.
Tutto ciò per tornare ad un concetto semplice: ma queste cose le sanno tutti! È vero, sono il nocciolo della filosofia imprenditoriale ed è proprio questa filosofia che in realtà sta scemando grandemente in terra italiana. I nostri genitori e nonni, nel Dopoguerra, hanno trasformato le loro abilità di falegnami e ciabattini in mobilifici e calzaturifici di successo; si sono industrializzati, hanno aperto nuovi mercati, nei primi anni Novanta hanno reagito alla crisi guardando fuori dai confini italiani.
Gli è che figli e nipoti non sempre hanno calcato le loro orme, soprattutto per una certa mancanza di “fame”: il benessere c’è, meglio vendere e poi comprare azioni o appartamenti. E non c’è grande ressa di giovani davanti alle porte dell’ascensore sociale: le nuove generazioni sembrano avere poca propensione e scarsi mezzi per affrontare i rischi imprenditoriali. Meglio tirare a campare che tirare le cuoia a causa di una concorrenza ormai mondiale, di una valanga di tasse, di una burocrazia che non aiuta proprio, di una politica spesso assente se non collusa, di un intrico di leggi e regolamenti faticoso da dipanare, di pagamenti che non arrivano mai, e chi più ne ha…
Ecco che “innovazione” ormai sta diventando in realtà lo squillo di una sveglia. Solo intraprendendo si crea ricchezza, il resto è fumo attorno all’arrosto.