“Vogliamo solo la pace e giustizia. Il mondo s’impegni perché si raggiunga la fine delle ostilità. Qui si muore ogni giorno. Basta!”: è il grido di Issa Tarazi, coordinatore del “Vocational training center”, promosso dal Consiglio delle Chiese del Medio Oriente, che si trova a Gaza City. Alza la voce il coordinatore mentre da Gaza è al telefono con il Sir, quasi a voler far ascoltare a quanta più gente possibile il disperato bisogno di una tregua, di un cessate-il-fuoco che le diplomazie internazionali stanno trattando in queste ore, mediando tra Israele e Hamas. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, non risparmia sforzi e l’annuncio del cessate-il-fuoco potrebbe essere imminente. Siamo al 18° giorno di combattimenti, e le vittime palestinesi sono oltre 800, in gran parte civili, e 33 quelle israeliane. Drammatica la conta dei bambini morti, uno ogni ora, secondo Oxfam Italia. Numeri che hanno spinto l’arcivescovo Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu a Ginevra, nel suo intervento del 23 luglio, alla XXI sessione speciale del Consiglio per i diritti umani dedicata ai diritti umani nei territori occupati palestinesi, compresa Gerusalemme Est, a parlare di “coscienze paralizzate da un clima di prolungata violenza che cerca di imporre una soluzione attraverso l’annientamento dell’altro. Il peggioramento della situazione a Gaza ci ricorda quanto sia necessario arrivare a un cessate-il-fuoco immediato e dare inizio a negoziati per una pace duratura”.
Nonostante le voci di un accordo di tregua, le brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno lanciato venerdì tre missili a lunga gittata verso l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. La bozza di accordo dovrebbe prevedere una settimana di stop ai combattimenti, che comincerebbe nel fine-settimana. Durante la tregua temporanea, l’esercito israeliano rimarrebbe all’interno della Striscia di Gaza, per continuare a localizzare e distruggere i tunnel. E durante il cessate-il-fuoco, Israele e Hamas dovrebbero sedersi a un tavolo negoziale per definire un’ipotesi d’intesa più ampia.
Il tempo passa e Tarazi è preoccupato per la sorte dei suoi giovani, quelli che frequentano abitualmente il laboratorio. “Hanno tutti dai 14 anni in su e al Centro si preparano a diventare le maestranze del domani, falegnami, elettricisti, meccanici. “Attraverso l’insegnamento e l’avviamento al lavoro - spiega il coordinatore - riusciamo a offrire loro qualche prospettiva. Molti provengono da famiglie povere e, per questo, non hanno potuto studiare. Insegnare un mestiere è il modo migliore per renderli capaci di costruirsi un futuro anche dentro Gaza”. Speranze infrante dai bombardamenti israeliani e dai razzi di Hamas. Gaza sembra avere solo un futuro di guerra e distruzione che non si ferma nemmeno davanti alle scuole. Quella distrutta giovedì, la quarta negli ultimi quattro giorni, a Beit Hanun, nel Nord della Striscia, apparteneva all’Unrwa (l’ente dell’Onu per i profughi) e vi avevano trovato riparo numerosi sfollati. Almeno 17 i morti (alcuni dei quali bambini), mentre sono 150 i feriti: nella struttura erano ospitate centinaia di persone che avevano cercato riparo dai combattimenti nell’area. “La situazione è sempre più critica. I bombardamenti continuano a Gaza City e al confine orientale della Striscia, da Sud a Nord. Molte case sono state demolite, si registrano numerosi feriti, soprattutto tra donne, anziani e bambini”, racconta Tarazi, che ancora non riesce a contattare nessuno dei suoi giovani apprendisti e teme anche per la sede che, dice, “potrebbe essere stata seriamente danneggiata dalle bombe. Purtroppo muoversi per fare una verifica di eventuali danni è pericoloso”. Ma la volontà di andare avanti resiste anche sotto le bombe, in condizioni di grande emergenza: “Abbiamo energia elettrica per una o due ore al giorno, non abbiamo internet. Tuttavia riusciamo ancora a trovare del cibo. Bisogna pensare alle migliaia di sfollati che hanno trovato rifugio nelle scuole in diverse zone della Striscia”. Derrate alimentari sono fornite dalle organizzazioni internazionali e in parte dal Governo. Ognuno cerca di dare il proprio aiuto. Anche la piccola comunità cristiana gazawa. “Come cristiani contribuiamo a fornire aiuto umanitario per quanto anche noi soffriamo, come tutti, della gravità della situazione. Abbiamo aperto le nostre scuole e le nostre chiese per offrire accoglienza agli sfollati che hanno abbandonato le loro case o che le hanno viste distrutte dagli scontri armati”. Con una speranza: “Che un giorno Gaza torni a vivere libera insieme ai suoi abitanti. Con questa consapevolezza affrontiamo i drammi di ogni giorno”.