Le Suore delle Poverelle

Testimoni del Risorto 29.08.2014

“Saremo famose”: chissà se almeno una volta saranno state sfiorate da quest’idea; chissà mai se han potuto immaginare che di esse avrebbero parlato i giornali e che, addirittura, la Chiesa avrebbe iniziato a ragionare sulla loro beatificazione. Pensiamo di no, per il semplice fatto che erano “figlie” del beato Palazzolo, uomo tanto pratico quanto umile, che alle sue Suore Poverelle raccomandava di vivere “avvolte tra i poveri”, di imparare a “stare con gli ultimi sempre, immergersi fra gli ultimi, prenderli per mano senza guanti”. I guanti non sarebbero comunque serviti alle sei suore che, malgrado le precauzioni adottate, sono state contagiate dal terribile e micidiale virus “Ebola” e sono state mietute, una dopo l’altra, tra il 25 aprile ed il 28 maggio 1995. Il loro eroismo non sta però tanto nell’impegno a curare la temibile “febbre rossa”, combattendola con turni sfibranti al capezzale degli infetti, quanto piuttosto nel fatto che, avendo potuto ad essa sfuggire, hanno scelto di restare al loro posto, pienamente coscienti del rischio cui si stavano esponendo. Sono quattro bergamasche e due bresciane, per le quali nel 2013 è stata avviata a Bergamo (sede della Congregazione) l’inchiesta rogatoriale, destinata a confluire nell’inchiesta diocesana avviata in Congo, a Kikwit, dove il loro sacrificio si è consumato e dove la gente locale le chiamava “mamme” o “nonne”, a seconda dell’età, e che basta a descrivere la carica di amore, da ciascuna investita nella propria missione. Vuole “seminare la misericordia del Signore” suor Floralba Rondi, la più anziana del gruppo perché del 1924; ha al suo attivo 43 anni di missione in mezzo a lebbrosi, tubercolosi, bambini denutriti, handicappati, poveri di pane e di speranza. Dopo una giornata sfibrante nelle corsie dell’ospedale non riescono a schiodarla dall’inginocchiatoio davanti al tabernacolo, perché, dice, “E dove la trovo la forza se non qui, davanti a Gesù?”. È del 1931, invece, suor Clarangela Ghilardi, l’ostetrica tutta allegria e disponibilità, accanto alla quale è assolutamente vietato essere tristi; ogni giorno chiede al Signore di essere “accogliente, felice, povera tra i poveri, come una goccia d’acqua, sperduta nell’oceano immenso del tuo amore”. Non ha ancora 50 anni suor Danielangela Sorti: la malattia la blocca mentre sta cercando di “lottare per una liberazione prossima e futura di questo nostro Paese di adozione” e muore sussurrando alle consorelle di “restare nella gioia perché amore chiama amore”. È fortemente convinta che Dio “sa tutto ed è con noi anche in questa durissima prova” suor Annelvira Ossoli, nata nel 1936; le consorelle riferiscono che è “un’esagerazione d’amore”. La morte la coglie mentre è Madre provinciale delle comunità d’Africa, accorsa a Kikwit per soccorrere le consorelle malate e pienamente cosciente di doversi sacrificare per loro. “Cosa ha fatto il mio fondatore? Io sono qui per seguire le sue orme, sono qui per servire i poveri. Il Padre Eterno mi aiuterà”, dice invece suor Dinarosa Belleri, anche lei del 1936. È la più allegra del gruppo, un’esplosione di vivacità e di umorismo per sollevare il morale di consorelle e malati. Ultima a morire sarà invece suor Vitarosa Zorza, 51 anni, che accorre da 500 chilometri di distanza, per assistere le malate e che risponde a chi cerca di trattenerla: “Le mie sorelle muoiono, hanno bisogno di me”. Al diffondersi dell’epidemia le suore, in modo categorico, declinano l’invito a rientrare in Italia o almeno a cambiare missione: “siamo totalmente nelle mani di Dio, nessuna evacuazione può essere fatta”. Forse riecheggia in loro il “quarto voto” che il fondatore chiedeva alle prime Poverelle: “assisteranno i malati poveri anche in tempo di malattie contagiose e di peste”. Il virus parte dalla sala operatoria ad inizio aprile e la prima ad esserne infettata è suor Floralba, per assistere la quale vengono successivamente contagiate Danielangela, Clarangela e Dinarosa e dalle quali il virus si estende ad Annelvira e Vitarosa: una reazione a catena, davvero una “esagerazione d’amore”, che fa di queste sei suore, “eroine per abitudine” e per vocazione, delle autentiche martiri della carità, che proprio in quanto “bianche” hanno avuto il potere di far accendere i riflettori internazionali sulla terribile epidemia, più di quanto non fossero riuscite migliaia di vittime “nere”, smuovendo le coscienze e dando vita ad una gara di solidarietà che ha salvato altre vite umane. E di loro c’è bisogno anche ai giorni nostri, visto che Ebola è tornata prepotentemente alla ribalta!