Suor Leonella Sgorbati

 Testimoni del Risorto 24.09.2014

Il perdono è come il coraggio: se non ce l’hai dentro non lo puoi improvvisare. Perché a perdonare, come a superare le paure, si impara giorno per giorno. Ne sa qualcosa suor Leonella Sgorbati, che, proprio per aver esercitato un perdono eroico, è adesso “candidata” alla beatificazione. Nasce a Gazzola, nel Piacentino, nel 1940 e a 16 anni confida a mamma di voler andare missionaria. “Ne riparleremo quando avrai 20 anni”, commenta mamma; ma la ragazza non cambia idea. Entrata nelle Missionarie della Consolata, fa il noviziato a Sanfrè (in provincia di Cuneo), poi va in Inghilterra a studiare da infermiera e solo nel 1970 realizza il suo sogno volando in Kenya. Come ostetrica sembra abbia fatto nascere 4000 bambini; ma questi continuano a nascere nel suo nome anche ora che lei non c’è più, perché ha trovato il tempo di far nascere molte scuole per infermiere ed ostetriche. “Dovremmo avere per voto di servire la Missione anche a costo della vita. Dovremmo essere contente di morire sulla breccia…”, diceva il fondatore della Consolata, il beato Allamano. Lei, che lo ama molto e che ne studia la spiritualità per incarnarla nella propria vita, scrive: “Io spero che un giorno il Signore nella sua bontà mi aiuterà a darGli tutto o... se lo prenderà... Perché Lui sa che questo io realmente voglio”. Questo suo “dare tutto” passa attraverso il suo “amare tanto”, si concretizza nell’ “amare tutti” e si traduce nel “perdonare sempre”, anche attraverso le fragilità di ogni giorno. Lo testimonia oggi una consorella tanzaniana, da lei educata al perdono nel momento tragico della morte violenta del proprio fratello: “sei tu che devi cominciare a fare questo gesto di perdono, non aspettare che tuo fratello si scusi”, le dice, facendo chiaramente intendere che in questo si sta esercitando, lei per prima, da tanto tempo. A casa sua e in tutte le missioni in cui passa, sono pronti a giurare che il suo biglietto da visita è il sorriso. Se le chiedono: “Perché sorridi anche a chi non conosci?”, invariabilmente risponde: “Perché così chi mi guarda sorriderà a sua volta. E sarà un po’ più felice”. Dal 2001 inizia a fare la “pendolare” tra il Kenya e la Somalia dove la sua presenza è stata richiesta dai Superiori, per iniziare anche qui una scuola per infermieri. Trova un paese dilaniato da 10 anni di guerra civile, segnato da anarchia, carestia, morti senza numero, campi profughi, banditismo ed in cui, di conseguenza, si è radicato un fondamentalismo religioso che considera i missionari cattolici, specie se bianchi, obiettivo privilegiato. Suor Leonella sa che per lei e le consorelle è pericoloso anche solo attraversare la strada, e ne ha paura, com’è normale: “C’è una pallottola con scritto sopra il mio nome e solo Dio sa quando arriverà”, ma con la forza della fede aggiunge sempre: “La mia vita l’ho donata al Signore e Lui può fare di me ciò che vuole.” Il vescovo di Gibuti è solito dire che il cuore di suor Leonella è più grande del suo fisico, pur imponente e “rotondetto”. E proprio questo grande cuore viene spaccato il 17 settembre 2006 da una pallottola, sparata a distanza ravvicinata, da due uomini che l’attendono mentre rientra a casa dall’ospedale, che si trova dirimpetto. Tra lei e le pallottole omicide cerca di frapporsi Mohamed Mahamud, un musulmano, padre di quattro figli, che la sta scortando in quel brevissimo tragitto. Anch’egli viene ucciso e il sangue del musulmano si mescola in un’unica pozza con quello della missionaria cattolica. “Cristiani e musulmani che cercano di condividere la vita devono mettere in conto la possibilità di unire il proprio sangue nel martirio”, scrivono in quei giorni. Difatti, non si tratta di una semplice coincidenza: “per me la morte di una italiana e di un somalo, di una cristiana e di un musulmano, di una donna e di un uomo, ci dice che è possibile vivere insieme, visto che è possibile morire insieme! Per questo il martirio di suor Leonella è un segno di speranza”, dice il vescovo. All’ospedale fanno di tutto per salvarla, i somali vanno a gara per donarle il loro sangue, esattamente come lei aveva fatto per loro, puntualmente, ogni tre mesi, come donatrice di sangue. Prima che si spenga come una candela, la consorella che le tiene la mano la sente sussurrare distintamente: “Perdono, perdono, perdono”. Sono le sue ultime parole, la sua firma sopra il proprio martirio. Ora “il cielo è senza stelle” dicono i somali quando sanno della sua morte; per noi, invece, tra breve ci sarà forse una stella in più nella costellazione dei santi martiri.