Alessandro Toè

Testimoni del Risorto 10.12.2014

Èuna storia di “ordinaria” santità, quella di Alessandro Toè, che inizia in Burkina Faso il 2 dicembre 1967, quando vede la luce, quinto degli undici figli di Samuel e Judith Paré. La famiglia cambia spesso abitazione, ma nel bambino, anche senza radici in una specifica comunità parrocchiale, spunta presto la vocazione sacerdotale: la faceva risalire ai 9 anni e ad una profonda amicizia con un giovane prete, di cui per gioco imitava i gesti e le celebrazioni, malgrado i rimproveri di mamma. A 20 anni e con il diploma di maturità in tasca, si innamora dei Camilliani e comincia presso di loro un anno di spiritualità, al termine del quale inizia a frequentare regolarmente i corsi di filosofia in seminario. Quasi in contemporanea con i primi voti (8 settembre 1991) gli viene diagnosticata un’epatite di tipo “B”, che i superiori ritengono possa esser meglio curata in Italia: di qui il suo trasferimento a Roma, dove frequenta con ottimi risultati la Lateranense e dove il 16 ottobre 1994 fa la sua professione perpetua. Il 15 gennaio 1995 riceve il diaconato e il 1° luglio dello stesso anno viene ordinato prete nella sua terra. Tornato in Italia, è nominato vice-maestro dei professi e Maestro dei postulanti, proprio mentre l’epatite con cui sta combattendo evolve in tumore maligno, che lo porta alla morte il 9 dicembre 1996. Fin qui la sua semplice vita, racchiusa in appena 17 mesi di sacerdozio e 29 anni di vita. Ancora più semplice ed intenso il suo itinerario spirituale, che sembra avanzare di pari passo con la malattia. Le testimonianze lo dipingono “intelligente e brillante, pieno di entusiasmo per qualunque cosa buona o che in qualche modo facilitasse l’amicizia e la fraternità”; superiori e compagni del seminario lo notano “sempre con il sorriso sulle labbra, pieno di delicatezza, animato da spirito di servizio” e finiscono per dargli il soprannome di “Samon le bon”, per cercare in qualche modo di esprimere tutta la carica umana di questo ragazzo dal cuore aperto e disponibile al punto da perdere alcune volte perfino la nozione del tempo nel suo lasciarsi “mangiare” dagli altri. Sente che la sua “missione nel mondo è di essere dovunque il riflesso di Cristo”, che per lui significa “perdere tempo” con chi fatica a studiare le lingue, chi ha bisogno di un aiuto al computer, chi lo contatta anche solo per lettera. Ha un intensissimo rapporto epistolare con amici sparsi nel mondo e al quale cerca di essere fedele anche scrivendo di notte, perché, dice, “per colui o colei che scrive, è uno sforzo e una speranza, non posso deluderli non rispondendo”. Il suo sogno è di poter diventare prete e medico per poter “sollevare i malati partendo dall’anima”, ma da vero figlio di San Camillo, che i malati se li caricava sulle spalle, “desidero portarli nel mio cuore, nelle mie mani, sulle mie spalle come fece Gesù. Fa’, o Signore, che io rafforzi bene i miei reni fin da adesso”. “Aveva fretta di diventare prete” ricordano gli amici, “voleva fare tante cose, dare agli altri, far condividere la sua fede e dopo i suoi studi voleva ritornare in patria per essere vicino ai suoi”. “Sono aperto alla vita, ma non mi nutro di illusioni”, sussurra, perché la sua passione per la medicina non gli consente di non conoscere la gravità e i rischi della malattia e anche il suo probabile epilogo. Tuttavia non si spegne la sua voglia di vivere, sottoponendosi anche a cure sperimentali ed accettando nuovi farmaci. Pur sapendo che “Cristo, se vuole, può guarirmi”, non lo sfiora l’idea di chiedere la guarigione, neppure di fronte alla grotta di Lourdes, convinto che “la mia morte prematura può essere una grazia perché il Signore sa quel che fa”. La sua preghiera si trasforma dunque in offerta: “I miei mali fisici siano per te un dono semplice. Desidererei riacquistare la salute, ma non te la chiedo, se è volontà di Dio che io porti questo male per tutta la vita; però concedimi la guarigione dell’anima e una vita conforme ai miei voti e per me sarà tutto”, arrivando a stipulare un patto con il buon Dio e la Madonna: “Sono deciso ad essere gioioso fino alla fine… purché voi mi siate accanto”. Suo desiderio era “restare ‘il povero burkinabé’ solidale e amante del suo popolo nella ‘ricca’ Roma”, e per questo aveva praticato una povertà semplice e gioiosa, lasciandosi spogliare di tutto, a cominciare dal suo tempo. L’ultima spogliazione completa la opera la morte, che arriva dolcemente, dopo un calvario atroce; per suo espresso desiderio viene sepolto in Burkina, dove avrebbe voluto tornare da prete e da camilliano.