Forse alcuni ricordano quel giorno, quella domenica in cui si iniziò a celebrare in italiano. Fu una data memorabile per la riforma liturgica. Era un primo frutto del Concilio ancora in pieno svolgimento (si chiuderà solo l’8 dicembre successivo), l’inizio di un processo di cambiamento, dell’avvicinamento della liturgia alle assemblee partecipanti, a quasi quattro secoli dalla riforma di Pio V (la cosiddetta “messa in latino”). Quella data coincideva con la prima domenica di Quaresima; Papa Paolo VI, rivolgendosi ai fedeli per l’Angelus, volle spiegare quello che stava accadendo: “La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento - il Concilio lo ha suggerito e deliberato - e questo per rendere intelligibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa. È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti”.
La chiara consapevolezza, da parte del Papa, del sacrificio che la Chiesa faceva di una parte del patrimonio della sua tradizione, e cioè la lingua, il latino, tradizioni di secoli legate ad esso, e con esso aver sacrificato anche l’unità di linguaggio, di espressione, sottolinea con vigore il criterio che ha presieduto alle scelte operate. Il tutto non è avvenuto per un insano desiderio di novità, bensì sotto la spinta del grande principio della riforma: la partecipazione attiva, piena e cosciente da parte dei fedeli al culto liturgico della Chiesa, per originare un profondo rinnovamento interiore: il vero scopo di tutta la riforma.
Ai preti romani, qualche giorno prima, il 1° marzo, raccomandava di prendere coscienza della decisività di quanto stava accadendo: “Dedicate somma cura, specialmente in questo primo anno, alla conoscenza, alla spiegazione, alla applicazione delle nuove norme, con cui la Chiesa vuole d’ora innanzi celebrare il culto divino. Non è cosa facile; è cosa delicata; (…) Si tratta di mutare tante abitudini, che sotto molti aspetti sono pur rispettabili e care; si tratta di disturbare i fedeli pii e buoni per proporre loro forme nuove di preghiera, che subito non capiranno (...). Ripetiamo: è cosa difficile e delicata; ma aggiungiamo: necessaria, doverosa, provvidenziale, rinnovatrice. (…). E occorre (…) avere l’arte di curare i particolari, in ogni loro esigenza, di orario, di ordine, di oggetti, di gesti, di movimenti, di silenzi e di voci; e soprattutto - la parte forse più difficile - di canti: occorreranno anni da noi, ma bisogna cominciare, ricominciare, perseverare per riuscire a dare alla assemblea la sua voce grave, unanime, dolce e sublime”.
Fanno riflettere ancora oggi queste parole del beato Paolo VI, un’esame di coscienza, un richiamo a ciò che fu autentica esperienza del passaggio dello Spirito, un rilancio delle forze più belle del rinnovamento liturgico per non rischiare di smarrire l’orizzonte di allora con scelte odierne discutibili. Quel rinnovamento, nonostante tutti i problemi e le difficoltà, tanto bene ha fatto a tutta la Chiesa e non solo. Ma forse avremo ancora modo di parlarne su queste pagine.
* direttore Ufficio Liturgico diocesano