suor Maria Carola Cecchin

Testimoni del Risorto 11.11.2015

“Donna saggia e prudente: attiva, ma non dissipata; seria, ma non ruvida; schietta, ma non imprudente; di pietà luminosa e soave”: un giudizio che vale un panegirico, una sintesi di vita che da sola le meriterebbe l’aureola. Evidentemente c’è però anche molto di più, se dopo 90 anni la diocesi torinese ha deciso di avviarne la causa di beatificazione. E non ci sarà nemmeno bisogno di fare la ricognizione canonica dei suoi resti mortali, perché sono finiti in bocca ai pesci, tra le onde del Mar Rosso. Fiorina Cecchin nasce a Cittadella (Padova), il 3 aprile 1877, e a 19 anni entra al Cottolengo di Torino con il sogno di andare in missione. Prima, però, le fanno fare un po’ di gavetta, nel senso autentico del termine: qualche anno nella cucina di Giaveno, altri in quella della Piccola Casa di Torino, e solo a 28 anni le danno il via libera per il Kenya. Sono, questi, gli anni pionieristici delle missioni cottolenghine africane, che solo da un paio d’anni si sono aperte a nuove frontiere equatoriali: regnano la povertà assoluta, forse anche un po’ di improvvisazione, certamente tanti sacrifici e privazioni che raggiungono l’eroismo puro. Finalmente in missione, dove sempre aveva desiderato essere, comincia esattamente da dove si era fermata a Torino: cioè dalla cucina, dall’orto, dalle faccende di casa, solo con maggior disagio e cento difficoltà in più, perché “ha a disposizione una stufetta mezza rotta, un po’ di legna da bruciare, piatti di latta e al posto del pane usa una gran quantità di patate. Il cibo è scarso e non basta mai”. Se però è vero, come sembra, che “la grandezza non sta nelle cose che fai ma nell’amore che metti nel farle”, deve essere davvero tanto l’amore di questa suora, se subito, al di là della barriera imposta dalla lingua, “tutti conoscevano il suo grande cuore e ricorrevano a lei, certi di essere aiutati”. Dicono che quando arriva lei, in corsia o nei punti distribuzione viveri ai poveri, basta il suo sorriso e la sua giovialità per rallegrare tutti: più contagiosa di così! Poi comincia a destreggiarsi meglio nella lingua Kikuyu ed a comunicare con più scioltezza: le è possibile, allora, girare nei villaggi, cominciare un po’ di catechesi, curare qualche malato a domicilio. L’ubbidienza la porta da Limuru a Tigania (nel Meru), passando per Tusu, Iciagaki, Mogoiri e Wambogo: ad ogni tappa, il più delle volte, “la casa è una baracca, una sola padella funge da pentola: ma a poco a poco, viene eretta la casa in legno”: a lei il compito di renderla abitabile, coltivare il giardino e l’orto, abbellire il cortile, raccogliervi attorno una piccola comunità, preparare, insomma, condizioni più vivibili per chi verrà dopo di lei. Pure questa è carità. La prima guerra mondiale ha le sue ripercussioni anche in Africa e il Kenya si popola di ospedali militari, dove le suore sono più necessarie che mai per curare, fasciare, consolare, rasserenare. La  “spagnola”, arrivata a decimare la popolazione, è riuscita a contagiarla, ma non a fermarla, perché pur bruciante di febbre continua a portare una buona parola, preparare al trapasso, amministrare un battesimo. Finita la guerra, nella missione di Tigania compare l’enterocolite sanguigna, a stremare chi è già cronicamente indebolito: anche le suore ne sono colpite e lei sollecita il rientro a Torino almeno delle più gravi, scrivendo in casa madre: “Ora che i passaggi marittimi sono liberi, speriamo che vengano chiamate in seno alla Piccola Casa, a godere un po’ di paradiso”. A dire il vero, anche lei sarebbe nel numero delle malate, anzi fino alla fine si porterà dietro le conseguenze dell’infezione, ma per se stessa nulla chiede, anzi si carica delle mansioni di chi parte. Del suo rientro si inizia a parlare solo nel 1923, quando le cottolenghine sono sostituite dalle missionarie della Consolata: anche in questo caso, però, lei è ultima ad abbandonare il Kenya insieme ad una consorella, perché bisogna lasciare ogni cosa in ordine e favorire l’inserimento delle nuove missionarie. Il viaggio di ritorno inizia il 25 ottobre 1925, ma per lei, ormai è troppo tardi: malattie e strapazzi l’hanno completamente consunta e muore a bordo della nave il successivo 13 novembre. La sua salma, avvolta in un semplice lenzuolo, viene adagiata tra le onde del Mar Rosso e tra queste scompare, come un seme nel solco della terra. E si vede che ha portato frutto, anche solo a giudicare dalle vocazioni cottolenghine sbocciate in Kenya, se la diocesi di Torino il 25 marzo 2014 ha deciso di far decollare la causa di beatificazione di suor Maria Carola Cecchin.