“La nostra bussola è la pace. Ma la legittima difesa può essere un dovere”

Il teologo moralista don Aristide Fumagali ribadisce gli insegnamenti della Chiesa. Eppure dinanzi alla “guerra in casa” scatenata dagli attacchi di Parigi e ai conflitti in molte regioni del mondo “non si può restare indifferenti”. “Uno Stato deve difendere i propri cittadini”

“La nostra bussola rimane il Discorso della Montagna: ‘Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio’. Abbiamo bisogno di pacificatori, che non è detto coincidano sempre con i pacifisti. Comunque la logica è chiara: no a ogni forma di violenza, sì alla convivenza pacifica. Anche se non si possono chiudere gli occhi di fronte alla guerra o al terrorismo…”. Don Aristide Fumagalli è docente di Teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Vive, e inoltre insegna, nel Seminario della diocesi di Milano, a Venegono Inferiore. Da qui riflette a partire dagli avvenimenti di Parigi, con un occhio ai focolai di violenza diffusi in molte, troppe regioni del mondo.

Professor Fumagalli, l’insegnamento della Chiesa è sempre stato così esplicito rispetto al tema della pace?

“In realtà c’è stata un’evoluzione. Si è passati, col tempo, dal concetto di ‘guerra giusta’ a quello di ‘legittima difesa’, per approdare con ferma convinzione alla promozione della pace. La dottrina del resto si è misurata con la storia: basti pensare al fatto che Giovanni Paolo II si espresse con un fermo ‘no’ alla guerra in Iraq, per poi chiedere l’intervento quale ‘ingerenza umanitaria’ nel conflitto balcanico. La pace, però, è il punto fermo, sul quale ci ha richiamati anche di recente Papa Francesco. La costruzione della pace è, del resto, un processo, che passa dai cuori delle donne e degli uomini. Lo stesso Gesù nel Discorso della Montagna si rivolge alle persone, non a una massa indistinta; è un insegnamento che comincia dalle persone prima che dalle strutture”.

Ma si può rimanere spettatori di fronte a quanto sta avvenendo nel mondo, dall’Isis all’Ucraina, da Boko Haram al terrorismo urbano?

“Nella convinzione che la pace sia la situazione ideale per la promozione della vita e dello sviluppo dei popoli, non si può restare indifferenti di fronte a tanta violenza, che colpisce indistintamente bambini, giovani, anziani, donne, uomini. Il contenimento della violenza può rendersi necessario e, in questo caso, non si esclude il ricorso alla forza. La quale, va subito detto, è da considerarsi come extrema ratio e, per certi aspetti, come una sconfitta del bene e della pace. La legittima difesa – che deve peraltro essere strutturalmente parte di un processo di ritorno alla pace – richiede inoltre un uso proporzionato della forza e deve escludere qualunque forma di vendetta, perché essa reduplica la violenza”.

Quindi la legittima difesa è un atteggiamento che potrebbe essere preso in considerazione in questa fase storica?

“Con queste premesse, e qualche altra condizione, sì. Occorre impedire che qualcuno produca ad altri, specie se inermi, un male sconsiderato. Pensiamo a un padre che si trova in casa qualcuno che minaccia la vita della propria famiglia. Per sé potrebbe scegliere di non reagire, addirittura di porgere l’altra guancia, come ha fatto e ci ha insegnato Gesù: è la logica profetica della croce. Ma se sono in pericolo la vita dei figli e della moglie, senza la possibilità di difendersi da sé, allora quel padre non solo può, ma deve agire in loro difesa. Questo vale, su altro piano, nella società: lo Stato ha il dovere di difendere i propri cittadini. Poi occorre verificare, caso per caso – ma qui ci addentriamo in un ambito che non è di mia competenza -, come, quando e quanto uno Stato deve mobilitarsi in chiave difensiva”.

E se le chiedessimo un parere, da cittadino, sulla “guerra in casa” di cui molti, in Francia, già parlano? Con reazioni pesanti che si misurano in Europa e sugli scenari internazionali: rafforzamento dei presidi di polizia e militari, chiusura delle frontiere, raid aerei in Siria…

“Da non esperto, lo sottolineo nuovamente, direi semplicemente che mi pare difficile contrastare queste forme diffuse di terrorismo. Usando, se è consentita, una metafora, direi che il topolino non è facilmente preda dell’elefante. Per stanare un topo è più efficace un gatto. Fuor di metafora: per contrastare il terrorismo è strategicamente più utile l’intelligence investigativa rispetto alla strapotenza militare. L’intelligence consente di concentrarsi non tanto sugli obiettivi da proteggere – che sono infiniti, dalle istituzioni politiche alle scuole, dai luoghi di ritrovo pubblici alle strutture private – ma sui soggetti che possono comminare violenza”.

Si torna a parlare di scontro di civiltà, e c’è chi chiama in causa le religioni. Cosa ne pensa?

“Le grandi religioni monoteiste sono per la pace, tutte affermano che non si può ricorrere alla violenza in nome di Dio. Anche se – lo sappiamo – in ogni comunità religiosa esistono i fanatici. Certamente il dialogo interreligioso è strumento efficace per avvicinare i popoli e anche la via più esplicita per screditare l’idea secondo cui le religioni generano fanatismo e violenza. È lo ‘spirito di Assisi’, che chiama in causa l’impegno e la fatica a creare unità attorno a valori comuni, valori di convivenza culturale, sociale e politica”.