Da Parigi a Bruxelles è lotta al terrorismo, ma siamo sulla strada giusta?

La capitale belga posta sotto assedio a caccia di cellule armate. In Francia la "ville lumière" reagisce diversamente e torna a vivere…

La guardia alta contro il terrorismo proseguirà a Bruxelles “almeno fino a lunedì”, 30 novembre. E cosa accadrà il 1° dicembre? Il pericolo-terrorismo sarà scampato o almeno annacquato? Il premier belga Louis Michel, sotto i riflettori dell’Europa e del mondo, fa quel che può. Il suo Paese è accusato di essere un “paradiso”, una zona franca, una “terra di coltura” del jihadismo, dove – si è sostenuto – i terroristi hanno campo libero e crescono come funghi. E avanti con le analisi sociologiche, economiche, antropologiche, per dimostrare, a cose fatte, che in Belgio ordine pubblico e sicurezza sarebbero sotto scacco, laddove l’estremismo radicale, con o senza etichetta religiosa, ha messo le radici.

Come spesso accade, le analisi prospettiche sono postume ed emergono i profeti con lo sguardo rivolto all’indietro, anziché in avanti.

Così succede che il governo belga sia costretto a mettere in strada tutte le forze di polizia e l’esercito di cui dispone, per rassicurare un’opinione pubblica in fermento, preoccupata  a causa di elementi oggettivi (gli attentati di Parigi), dati da verificare (arresti a tappeto, con successivi rilasci di persone coinvolte senza colpa), controproducenti campanelli d’allarme (mass media silenti fino a l’altro ieri che ora dipingono il Belgio come la quinta colonna dell’Isis).

Intendiamoci. I morti e i feriti di Parigi sono la tragica realtà di una ferocia disumana, che usa la forza per imporre chissà quale visione della vita, del mondo, del rapporto tra popoli, fedi religiose o Stati.

Questo terrorismo deve essere contrastato: con l’intelligence, con polizia ed esercito, con magistratura e carcere, con il blocco dei finanziamenti che alimentano i gruppi armati.

Ma anche mediante prevenzione, educazione, dialogo interculturale e interreligioso, lotta al disagio sociale… Attorno alle sfide dell’oggi non si possono però costruire “battaglie di civiltà”, non è lecito puntare il dito verso un certo gruppo sociale piuttosto che l’altro, non si può identificare in un municipio di Bruxelles un capro espiatorio e nemmeno condannare una religione anziché un’altra.

Posto che siamo tutti per la sicurezza, per il diritto alla piena libertà e la tutela senza sconti dei principi democratici, si faticano a comprendere alcune reazioni internazionali. Ad esempio a Bruxelles si blocca la città, con metro e scuole chiuse, stop ai campionati sportivi, forze dell’ordine inviate a presidiare il territorio allo scopo di prevenire altre azioni criminose e di stanare i violenti; a Parigi, città-martire del terrorismo, si invitano i cittadini a tornare per le strade e nei locali pubblici, per “dimostrare che la vita continua”, che “la paura non ha vinto”, e che la “Francia è più forte dell’Isis”.

Ancora: nelle grandi città europee le autorità decidono di presidiare i “luoghi sensibili”, dalle sedi istituzionali alle università, dagli aeroporti ai monumenti, fino a sinagoghe, chiese e moschee; mentre i terroristi hanno dimostrato proprio a Parigi che la loro cieca e torbida violenza può colpire ovunque, per diffondere nelle persone comuni il senso di incertezza: nel mirino sono finiti i tavolini di un caffè, un concerto, una piazza. Così, se i blindati occupano militarmente Molenbeek, gli abitanti di Anderlecht o di Louise, altre popolose aree della capitale belga, possono dormire sonni tranquilli? Difficile da credere: un ordigno in un qualunque condominio dove vivono 50 famiglie avrebbe lo stesso effetto del Bataclan; e come rendere sicuro ogni treno (dove si sale senza i controlli eseguiti negli aeroporti), ogni mercato rionale, ogni campetto di periferia?

Qualche interrogativo non a caso comincia a trapelare nel dibattito di questi giorni. E c’è chi ha insinuato il dubbio che gli ultimi arresti, eseguiti in Belgio, in Francia e altrove, possano essere fumo negli occhi per acquietare un’opinione pubblica preoccupata e forse assetata di vedere il volto di un colpevole assicurato alla giustizia.

Come mai – ci si potrebbe infatti domandare – i blitz “chirurgici” contro il terrorismo avvengono solo oggi? Perché non il 12 novembre, vigilia degli eccidi di Parigi?

Allora occorre ribadire un chiaro e netto sì alla sicurezza, senza impaurire più del necessario la popolazione, anche per evitare di alimentare quei fenomeni di xenofobia, razzismo, islamofobia, nazionalismo già così diffusi nelle nostre società occidentali. Perché comunque si deve vivere!

C’è anche da augurarsi che i timori europei non spingano, sotto l’onda dell’emozione, a scelte politicamente errate, con pesanti ricadute nel lungo periodo. Dopo l’11 settembre ci fu la guerra in Iraq, con tutte le sue conseguenze; oggi ci sono Isis e Siria: la storia insegnerà a evitare gli errori del passato?