Giovanni Battista Trona

Testimoni del Risorto 02.12.2015

Se qualcuno ci chiede chi è l’autore degli “atti” di Fede, Speranza e Carità, che un tempo erano parte integrante del “bin” recitato dai nostri vecchi, adesso siamo in grado di rispondere che è un cuneese: è stata una piacevole sorpresa scoprire, infatti, che risalgono al venerabile Giovanni Battista Trona, nato nel 1682 a Frabosa Soprana in località Serro. La sua è una famiglia stimata e ammirata per l’onestà, un po’ meno, forse, per i lutti ed il tenore di vita, al limite della povertà. Papà infatti muore quando lui ha soltanto sette anni e mamma deve arrabattarsi per sfamare i quattro figli, tra i quali è il più gracile e cagionevole di salute, tanto che sui dieci anni è “giudicato tisico”. Guarisce improvvisamente dopo esser stato benedetto con una reliquia di San Vincenzo Ferreri e verso questo santo si sentirà sempre debitore. Il peggio tuttavia deve ancora venire: nell’autunno 1695, mentre con mamma raccoglie castagne nei boschi di Frabosa, assiste impotente al suo assassinio, ad opera di un compaesano che, avendo un conto in sospeso con il parroco della borgata, non trova di meglio che sfogarsi a pugnalate sulla di lui innocente sorella. Giambattista reagisce facendo appello alla fede e al perdono cristiano, che si spingerà fino a beneficare l’assassino e condonargli l’intero risarcimento danni, quando questi dopo un periodo di latitanza e grazie ad un indulto potrà ritornare impunito a Frabosa. In quello stesso anno entra nel seminario di Mondovì, da cui esce sacerdote nel 1705: avrebbe l’idea di partire missionario, ma il vescovo lo orienta invece verso la Congregazione dell’Oratorio (fondata da San Filippo Neri), appena istituita in diocesi. Così, missionario in patria, percorre in lungo e in largo il monregalese, predicando, esortando, insegnando, rigorosamente “in lingua piemontese, anzi nel dialetto di Mondovì, in quanto, diceva, se non si parla il linguaggio comune, il popolo non è in istato di ben comprendere le verità che gli si annunziano”. Anche a Fossano viene spesso: per ragioni di ministero dai padri filippini della nostra città e, tante volte, anche in vescovado, ospite del “santo vescovo di Fossano monsignor Pensa di Marsaglia”, suo fraterno amico, il quale “nulla intraprendeva senza di lui”. Dei suoi consigli, a dire il vero, sono molti a beneficiare, a cominciare da Carlo Emanuele III e dal Marchese d’Ormea, che si sdebitano finanziando le sue tante opere di carità: perché, oltre a sfamare le frotte di miserabili che bussano alla sua porta, va a scovare, nelle soffitte e nei tuguri, un’infinità di poveri diavoli, in maggioranza malati cronici, invalidi, vecchi abbandonati bisognosi di medici e medicine, per i quali si inventa la “cambiale” della carità: “lasciava nella casa dell’ infermo un biglietto da se sottoscritto, che dall’infermo presentato poi a’ chirurghi ed agli speziali gli otteneva ciò di che abbisognava”. Il suo confessionale è talmente assediato dai penitenti che quasi sempre i confratelli ve lo devono estrarre a forza, scortandolo fino alla sacrestia, per consentirgli di celebrar messa. Dicono che nei loro confronti abbia la fermezza del Borromeo e la dolcezza di Francesco di Sales, anzi di quest’ultimo la “Positio” attesta si sia fatto “perfetto imitatore”. Perché di dolcezza gli serve una dose supplementare, per far fronte a calunnie e maldicenze montategli contro da invidiosi che anche tra il clero non scarseggiano, mentre per scherno lo chiamano “il frabosano”. Buon per lui che il vescovo non crede alle malelingue, anzi è conquistato dalla sua predicazione, che verte essenzialmente sulle virtù teologali, trasmesse e inculcate, anche attraverso un “Trattato sulle tre virtù teologali spiegate al popolo”. E’ poi opinione comune che a lui si debba la stesura di quel pregevole testo - noto come “Catechismo di Mons. Casati”, dal nome del vescovo che lo promulgò - a cui attingerà il Catechismo di San Pio X. Perché padre Trona, da autentico figlio di San Filippo Neri, è soprattutto nella catechesi che spende il meglio di sé. E proprio facendo catechismo, il 6 dicembre 1750 viene colpito da emorragia cerebrale, che lo porta alla morte il successivo giorno 13. Chissà cosa direbbe oggi, se già allora si lamentava: “La fede se ne va: io non vi sarò più, ma voi vedrete; la gioventù si incammina male: tarderemo poco a vederla tutta scapestrata”. Riconosciute nel 1927 le sue virtù eroiche, oggi un rinnovato interesse a Mondovì attorno alla sua figura sta sollecitando a Dio un miracolo per sua intercessione, che consenta di venerarlo presto tra i beati.