fratel Giosuè dei Cas

Testimoni del Risorto 10.02.2016

A papa Francesco, cui piacciono i pastori con addosso l’odore delle proprie pecore, andrebbe sicuramente a genio un missionario così, perché non soltanto l’odore, ma anche la malattia delle pecore ha preso su di sé. Nasce nel 1880 nella contrada Burat della frazione Piatta del piccolo comune di Valdisotto, in quel di Sondrio, dove il giovane Giosuè in estate è contadino e in inverno spalatore di neve sullo Stelvio. Fino ai 25 anni, quando dalla predica di un comboniano scopre che non necessariamente tutti i missionari sono preti e che quindi si può andare in missione anche come semplici “Fratelli”, a seminar Vangelo con il lavoro delle proprie mani. Gli sembra una soluzione che faccia al caso suo, dato che al matrimonio non si sente portato e agli studi nemmeno, mentre è indiscutibile il desiderio che si sente dentro di mettere la vita a servizio di Dio. Non la pensano così i formatori dei Comboniani di Verona, che finiscono per giudicarlo non idoneo al noviziato per i suoi evidenti limiti culturali e relazionali, evidentemente non badando ad altri aspetti che avrebbero deposto a suo favore, come ad esempio la preghiera e la carità. Proprio a queste si aggrappa invece il maestro dei novizi, che, per salvare in corner una vocazione per lui sicura ma ormai spacciata, riesce ad ottenere che Giosuè venga accolto dai Comboniani almeno come “aggregato all’Istituto”. Una soluzione di ripiego, dunque, e non proprio lusinghiera, per accettare la quale è indispensabile una buona dose di umiltà, insieme ad una gran voglia di andare in missione. Nel 1907 Giosuè parte così da Verona con destinazione il Sudan, senza neanche salutare i parenti. Ci vogliono 15 anni di lavoro umile, faticoso ed ingrato, a costruire terrapieni ed a scavare pozzi, prima che i confratelli si accorgano che hanno a che fare con un santo. Sono testimoni della delicatezza con cui accoglie i poveri, della tenerezza con cui lava e fascia anche le ferite più ripugnanti; lo vedono mangiare nello stesso piatto dei malati per dimostrar loro che non ha paura di essere contagiato; sono ammirati di come la gente, all’inizio diffidente e schernitrice, si è lasciata conquistare dalla sua bontà fino ad offrirsi a lavorare insieme a lui per la missione, e allora prendono carta e penna per dire ai superiori che l’umile e disponibile Giosuè merita davvero di diventare comboniano al par di loro. Viene così richiamato in Italia per fare il noviziato ed emette i Voti durante la notte di Natale del 1921, ma appena pochi giorni dopo, di nuovo senza salutare i parenti, ritorna in Africa, perché sente che là ormai è la sua vera famiglia. Lo  mandano a Detwok, tra la popolazione Denka, dove ha occasione di incontrare la duchessa Letizia d’Aosta, la cui attenzione è attirata dalle strane ferite presenti sulle sue mani e deduce che potrebbe trattarsi di lebbra. La supposizione è confermata dalla diagnosi di uno specialista: chiaramente l’ha contratta servendo e curando i lebbrosi, reso adesso come loro e costretto all’isolamento, prima nell’isola di Gesira, poi nel lebbrosario di Kormalàn, nei pressi di Wau (Sudan meridionale), una sorta di inferno, dove gli stessi missionari entrano malvolentieri. Dopo un normale sgomento iniziale, fratel Giosuè comincia ad elaborare che la sua lebbra può diventare una benedizione là dov’è ancora considerata una maledizione e dove la sensazione di essere abbandonati anche da Dio acuisce il dolore fisico e la sofferenza dell’isolamento. “Cos’è poi questa lebbra? Se considero bene, non è una croce, ma una fortuna perché posso essere missionario più di prima e senza più il pericolo di tornare in patria”, scrive a casa. Inizia ad ingentilire l’ambiente, a farlo pulire, a rallegrare gli ospiti insegnando loro un mestiere; per loro costruisce una cappella e gli studenti cattolici di Wau vanno al lebbrosario per vedere e per parlare con il lebbroso Giosuè che ha ridato speranza agli altri lebbrosi. Fino ai primi giorni di dicembre 1932, quando i missionari gli dicono che il giovane Fratello appena arrivato dall’Italia si è ammalato seriamente e sta per morire. “Domattina starà bene”, dice Giosuè, ma intanto quella sera stessa si mette a letto lui, colpito da un attacco di malaria perniciosa. Quando non c’è più speranza lo portano alla missione, dove spira alle 10 del 4 dicembre 1932, nello stesso istante in cui il confratello balza dal letto completamente guarito. Una vita, quella di fratel Giosuè dei Cas, fatta misericordia fino alla fine, perché ha offerto la sua “inutile” vita in cambio di quell’altra, giovane e promettente.