Un popolo di ex imprenditori

È di loro che il Paese ha un disperato bisogno per ripartire, ma…

Se vostra figlia fosse “caldamente invitata” ad aprire una partita Iva da un’azienda con cui collabora, per essere pagata di quanto le spetta, per questo la definireste “un’imprenditrice”? Tecnicamente e fiscalmente sì, è una nuova partita Iva. Praticamente no, come sanno perfettamente le decine di migliaia di partite Iva italiane che si trovano in questa situazione. Mettersi in proprio e dotarsi di una partita Iva non significa essere imprenditori: vuol dire scegliere, o essere costretti a scegliere, di organizzare il proprio lavoro – e i propri introiti – in quel modo.

Se a vostro figlio lasciate il negozio di famiglia, l’attività che state portando avanti da anni, lo definireste per questo “imprenditore” poiché gestirà l’impresa che ha ereditato da voi? In un certo senso sì, ma non in quello in cui si considera questo mondo come il motore dell’innovazione economica, la rampa di lancio delle nuove iniziative imprenditoriali.

Perché questo è il punto: l’Italia è un popolo di imprenditori secondo le statistiche, ma non nella realtà. Quanti sono coloro che appunto si organizzano in modo indipendente per dare sviluppo ad una propria intuizione, ad un business messo in piedi e bisognoso di crescita?

Ecco, sotto questo profilo la situazione cambia alquanto. L’Italia è stata un popolo di imprenditori dal Dopoguerra in poi, quando era assolutamente naturale che l’apprendista falegname si mettesse in proprio per aprire un’attività autonoma, o per fare il salto di qualità: dalla pialla al mobilificio, dal comò al brand alfiere del made in Italy nel mondo.

Ma oggi? Depurati i dati relativi alle partite Iva fittizie – quelle che nascondono tanta flessibilità ma solo da una parte – tra le molte imprese che sorgono ogni anno in Italia sono poche quelle che cresceranno al di là della posizione individuale dell’imprenditore; pochissime quelle che correranno più veloci di tutte le altre. Se tra gli anni Cinquanta e Settanta è nato l’attuale made in Italy, dal Duemila ad oggi sono rari i casi di chi ha spiccato veramente il volo.

Sono cambiate le condizioni, si dirà: vero solo in parte, perché in realtà il mercato interno si è allargato all’intero mondo. E capita sempre più spesso di imbattersi in aziende che lavorano totalmente per l’export. A cambiare sono state soprattutto le condizioni, l’humus dal quale far nascere la piantina.

Intraprendere ieri era la cosa più facile del mondo, il fisco non era particolarmente opprimente (anzi…), la burocrazia non era tale per cui un terzo delle tue risorse sono assorbite dall’ufficio amministrazione, lo spirito aveva a che fare più con la fame e il riscatto sociale, che con il senso di sazietà che si porta appresso la nostra società. Allora ci fu tanta trasformazione di artigiani in industriali. Oggi, occorre una grande preparazione professionale per eccellere, per fare qualcosa di nuovo al di là degli ostacoli che in Italia bisogna affrontare.

Non è un’analisi: è un problema. Perché il benessere futuro dipende anche dalla crescita di imprese innovative, che sappiano svilupparsi, dare occupazione, diventare qualcosa di più di una modalità con cui sfangarla, in attesa di un posto fisso. Perché quest’ultimo, come ci insegnano pure certi film di grande successo, sta diventando appunto materia da film: di fantascienza.