Carino da Balsamo

Testimoni del Risorto 25.05.2016

Sarà perché, com’è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi; oppure per la ben nota sfortuna che sempre lo accompagna; o più semplicemente perché il complice, dando l’allarme, ha fatto accorrere i primi soccorritori sul luogo dell’agguato, fatto sta che l’assassino viene disarmato e consegnato alle autorità milanesi, che lo mettono in cella. Qui Carino acquista una sorprendente loquacità, diventando un prezioso collaboratore di giustizia che non ha remore a fare nomi e cognomi dei suoi mandanti, non volendo far da capro espiatorio di una vicenda in cui è stato attirato semplicemente per una questione di soldi. Ciò facendo finisce per rivelare il deleterio intreccio tra politica e religione, tra inquisizione e nobiltà milanese, che tutti suppongono ma che nessuno ammette. Talmente loquace da diventare scomodo e pericoloso; nella convinzione che faccia meno danni se rimesso in libertà, è lo stesso podestà di Milano a trovare il modo per farlo evadere dal carcere, non immaginando che così si gioca il posto: una decina di giorni dopo sarà infatti costretto a dimettersi per una sollevazione popolare. Ritrovata la libertà ed in effetti l’unico ad averci guadagnato in questa losca faccenda, avendo in anticipo riscosso quanto pattuito per l’omicidio, Carino prova ad inventarsi la nuova vita di ricercato dalla giustizia, pensando innanzitutto salutare cambiare aria in fretta, in quanto troppo rischioso per lui continuare a vivere in Lombardia, dove l’insurrezione contro i Catari è ormai in pieno fermento.  Qualcuno ipotizza che voglia raggiungere lo Stato Pontificio per confessare direttamente al Papa il suo delitto e ottenerne l’assoluzione, il che farebbe presumere che cominci a essere perseguitato, oltre dalla giustizia umana, anche dal rimorso, ma probabilmente è una rappresentazione oleografica della rocambolesca fuga di un personaggio, pur sempre losco, che cerca semplicemente di salvare la pelle trasferendosi in un luogo in cui poter vivere nell’anonimato. Attraversata in fretta l’Emilia Romagna, approda a Forlì, dove è ricoverato in fretta e furia nel locale ospizio: qui le sue condizioni si aggravano talmente da portarlo in breve tempo in fase terminale, tanto che per lui si chiedono gli ultimi sacramenti. Destino vuole che ad ascoltare la sua confessione sia proprio un domenicano, cioè un confratello della sua vittima, che non ha il minimo dubbio sul sincero pentimento di quell’agonizzante, al quale, insieme all’assoluzione, strappa la promessa, nell’improbabile caso che non muoia, di entrare come “converso” nel convento domenicano della città, per fare penitenza del suo peccato. Dato che il Signore non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva (cf. Ez 33,11), improvvisamente Carino guarisce e subito si sente in dovere di adempiere il voto fatto, cioè entrare in convento, non si sa bene se come semplice penitente o come “frate converso”: solo si sa che, accolto nel 1253, vi resta esattamente per 40 anni, edificando tutti per la sua penitenza, la sua umiltà, la sua disponibilità a fare i più umili servizi che altri frati non vogliono fare e che invece è quanto a lui riesce meglio, cioè coltivare i campi come ha sempre fatto. Carino da Balsamo muore nel 1293, chiedendo espressamente di essere sepolto non insieme agli altri frati, ma in terra sconsacrata, come si conviene ad un assassino, quale lui continua a considerarsi. Lo accontentano, seppellendolo nel piazzale di San Domenico, dove si dava sepoltura ai giustiziati, ma devono toglierlo in fretta di lì, perché la gente lo considera un santo e va a raccomandarglisi, con non poco imbarazzo dei frati. Ne portano i resti nella loro sacrestia, inaccessibile ai visitatori, ma a furor di popolo devono seppellirlo in chiesa e infine nella cattedrale di Forlì, da dove il “santo assassino” ha finito per ritornare nel suo paese, a Cinisello Balsamo, a non più di 20 chilometri dal luogo in cui si venera San Pietro da Verona. Qui i compaesani lo pregano col titolo di beato, consapevoli che se è riuscito a cambiare vita lui, nessun altro ha il diritto di disperare. Anzi, diventa il segno più che eloquente che la misericordia di Dio opera così tali miracoli da rendere possibile, come ha detto il cardinal Scola, “che a pochi chilometri di distanza oggi siano venerati sia l’ucciso che il suo assassino, diventati ‘uno’ in Colui che è il volto stesso della misericordia”.

(2-fine)
(A chi volesse approfondire consigliamo: Marco Bulgarelli, “Il santo assassino”, San Paolo)