Un centro, fuori dal centro

A Vicoforte, nel dialetto di Montaldo, Remigio Bertolino racconta il “mare”

A Vicoforte c’è il mare. “Il poeta e pasticciere Francesco Comino diceva sempre che Mondovì Piazza vista da qui sembra la prua di una nave”, racconta Remigio Bertolino ridendo. Già, perché una frase del genere non potrebbe far altro che sorridere, ma non è così. Andiamo per ordine. Remigio Bertolino è un poeta dialettale, uno dei più importanti in Italia. Scrive nella parlata di Montaldo Mondovì, dov’è nato, anche se oggi vive nella suggestiva via delle Cappelle, a Vicoforte. Ha sessantott’anni e dopo aver insegnato nella scuola elementare “Franco Centro” di Bastia, adesso, si gode la pensione. Oggi scrive, legge, organizza mostre, collabora con alcuni giornali e… pensa. Pensa a quel “mondo di voci e di silenzi che non c’è più”, alle storie della gente che ha conosciuto nella sua infanzia, “un mondo di saggi e di ‘vinti’ che viveva con sforzi enormi, con grandi fatiche e che tuttavia mostrava serenità;  persone che seguivano il ritmo delle stagioni senza affanni". "Sono queste le storie che racconto nei miei libri di poesia. Gente che ha lasciato una scia di luce, io le chiamo i ‘lumin’, le lucciole”.

Ci accoglie a casa sua, un pomeriggio di maggio. A percorrere via delle Cappelle in fiore, sotto un sole abbacinante sembra di salire davvero in un altrove mistico, immersi nella luce. Non una via crucis, ma una via “lucis”: verso il luogo della poesia, che non ha tempo né spazio e vive in un paradisiaco mondo delle idee: “Sì, le chiesette sono molto suggestive - dice Bertolino -. È un progetto nato nel 1682 quando si pensò di costruire quattordici cappelle dedicate ai misteri del rosario, e il santuario avrebbe rappresentato il quindicesimo. Per iniziativa di facoltose famiglie si costruirono le prime quattro a Fiamenga, di queste solo una è ancora esistente, poi si abbandonò il tutto. Fu ripreso nel 1869 coi vescovi Ghilardi e Pozzi che, con l’architetto Giovanni Schellino, fecero costruire quattro cappelle. Una quinta venne aggiunta dalla popolazione. Tuttavia, anche questo secondo progetto restò incompleto”. Oggi molte hanno la copertura in rame, come il santuario, dalla cupola ellittica più grande del mondo. Rame ossidato, verde mare - e scusate l’anagramma -, perché a Vicoforte, dicevamo, c’è il mare! È il mare di neve (in inverno), prima di tutto: “Pèi barche traversma/ mar d’ortie:/ j’ere sotrà dla fiòca… (Come barche attraversiamo/ mari d’ortiche:/ la aie sepolte dalla neve…)”, metafora che Bertolino usa con grande frequenza, forse perché quel suo Monregalese è terra di confine per antonomasia. Tra le Langhe, la montagna e la Liguria. Costola occitana e terra di mezzo, via di passaggio in cui qualcosa al mare va e altro ritorna, come un’onda descritta idealmente dal paesaggio. Al mare va l’acqua, quella della sua neve tanto cara nelle raccolte: A lum ëd fiòca, A lume di neve, o L’eva d’ënvern intesa come Era d’inverno e come L’acqua d’inverno. Ma dal mare ritorna anche qualcosa, è il «Marin», “il vento umido di mare che a febbraio scioglieva la neve, a Montaldo, e faceva apparire i primi bucaneve come un miracolo”: “Amor da leugn/ o sa ëd marin,/ o piora sël feuj (Amore di lontano/ sa di vento di mare,/ piange sul foglio)”. «Mare» che in dialetto, però, vuol dire anche «madre». La madre che Bertolino perse quando era adolescente: “Era venuta a Mondovì a piedi nella neve d’inverno, da Montaldo. Andava a parlare coi professori per sentire come andavo a scuola. Sulla via del ritorno ha preso un infarto, ma sarà morta contenta almeno, perché a scuola andavo bene…”, dice con un sorriso leggero e pensieroso, che fa trasparire ancora oggi nostalgia. Quella madre che è sempre mancata e che la poesia - in qualche modo - ha cercato di colmare. Una presenza femminile che salva: la natura, l’acqua, la neve, la parola… “Për la poesia/ e j’orfanej/ la fiòca a l’eva/ na bon-a mare (Per la poesia/ e gli orfani/ la neve era/ una buona madre)”. Perché Bertolino s’è fatto paesaggio egli stesso. Alto, magro, ossuto ed essenziale come le sue storie, come la parola del dialetto che non contempla svolazzi retorici. Semplice, diretta: “Era la più vicina alle vicende che avrei voluto raccontare, per questo ho scelto il dialetto di Montaldo. Una parlata più dura, per esempio, rispetto alla koinè torinese e per questo più vera. Non potevo far parlare in italiano i miei personaggi. Loro sono quella lingua, priva di parole difficili e altisonanti”. Sono semplici e complessi come lui, insomma; come la sua gentilezza e mitezza che è la rocciosità della montagna che accoglie, nascondendo sempre, però, un velo di non detto e di non scritto. Una casa “pensierosa”.

Ma dicevamo che il mare restituisce, e per la Valle la cosa più preziosa che arrivava dalla Liguria era il sale, e i Savoia lo sapevano bene. Nonostante Mondovì avesse sempre goduto di libertà dal pagamento dei dazi sul sale, a un certo punto i sovrani imposero una gabella sulla merce che arrivava lungo la Via del sale. Tassa che fece insorgere la popolazione e scatenò una vera guerra, anzi due. Dapprima nel 1680, quando la situazione venne controllata, per così dire. Ma è nel 1699 che non ci fu pietà: deportazioni, stupri, decapitazioni e garrottamenti. “Tagliarono ettari di castagni, che allora era una delle poche fonti di sopravvivenza per Montaldo. Sette delle nove frazioni distrutte. Fu una tragedia che mio padre ci raccontava sempre la sera davanti al fuoco, perché come una sorta di Omero voleva tramandare il ricordo per un fatto così cupo; per paura che andasse perso. Di generazione in generazione si raccontava, anche perché i Savoia imposero il divieto di parlarne sui libri di Storia e, fin dopo il 1945, in pochi infatti ne erano a conoscenza”. Nell’ultima sua raccolta poetica “Litre d’ënvern (Lettere d’inverno)” uscita per Aragno nella collana di poesia diretta dall’amico Giovanni Tesio, viene dedicata un’intera sezione alla Guerra del sale e alle storie tragiche occorse. “Ho dato voce alle donne, ancora una volta, e alla crudeltà di don Gabriele, mandatario dei Savoia così tanto odiato ancora oggi in queste valli”. Un dialetto che fa trasparire tutta la sofferenza: “Ho fatto lunghi sopralluoghi nei territori coinvolti, d’inverno, e mi sembrava di sentire ancora quelle voci e quei lamenti nella carne e nelle ossa della montagna. Ecco perché dico che non potrei scrivere in italiano, solo il dialetto è così ‘aderente’ alla verità di quei fatti”. “Tesio parla di ‘parole di legno’, perché sono parole semplici ma vive. Come il legno che ha calore, venature, si adatta pur nella sua compattezza, e muta nel tempo a differenza della pietra”. Ma che cos’è la poesia per Remigio Bertolino? “Uno strumento archeologico, quasi, uno scavo alla ricerca delle nostre radici attraverso la parola. È come strofinare le vecchie pentole di rame, che una volta pulite rilucono di nuovo, riverberano di luce. Perché un altro elemento importante nella mia poesia è la luce, il fuoco, quello che vedevo nei pomeriggi passati a casa di mia nonna davanti al camino: scoppiettii, iridescenze date dalle fascine di erba e edera che usava per accendere il fuoco. Folgorazioni”. Ma alcuni dicono che la sua poesia sia anacronistica e rappresenti una sorta di "Spoon river" di un mondo ormai morto, cosa risponde? “La mia non è una poesia crepuscolare, ma zenitale. Queste vite sono rappresentate nel massimo del loro acume, come se impressionassi una lastra fotografica nell’istante di maggiore luce, sono degli “Sbaluch” (bagliori), per citare un altro mio libro. Vite misere, ma splendide e splendenti. Vite viventi e non morenti. E se 'la poesia è sogno' - diceva Calderon de la Barca - e se 'ciascuno cresce solo se sognato' - diceva Danilo Dolci -, sognare queste vite e depositarle sul fogli le fa continuamente vivere, attraverso di noi. Per ricordarci chi siamo stati e dove andiamo”. Ma Davide Rondoni diceva anche che “la poesia mette a fuoco la vita”; cosa significa vivere a Vicoforte facendo poesia? Nella terra cioè della cupola ellittica più grande del mondo, la terra dei “due fuochi”? Perché l’ellisse ha di per sé matematicamente due fuochi, è un cerchio schiacciato, un centro fuori dal centro o con più centri… “È così tutta la mia vita: sono sceso da Roamarenca (la via del mare, letteralmente - ecco ancora una volta il mare! -) di Montaldo per andare a studiare a Mondovì, al 'Casati'. Lì il mio maestro (il padre di Flavio Briatore, ndr) mi strappò il primo quaderno e lo butto nel fuoco: «Cosa perdi tempo scrivendo versi - mi disse -; studia piuttosto!». Da lì la mia voglia 'sovversiva' di capire la vita con la poesia, forse naufragare anche" (ride, ndr). Curioso soprattutto per uno che si chiama Remigio, cioè “rematore” - letteralmente -, ma anche San Remigio, festeggiato il primo ottobre, un tempo inizio dell’anno scolastico, o ancora “rimedium” come rimedio spirituale. Ma la poesia è rimedio, salva? “Aiuta!”. E se lo dice uno come lui che ha ottenuto premi importanti, ci si deve credere. Per citarne alcuni il "Pascoli" e il "L.Pea", intitolato alla memoria dell’amico Paolo Bertolani, che da ligure - quasi come un controcanto ideale - scrisse “Raità de neve” (Rarità delle neve). Non solo, perché Bertolino con l’associazione "Gli Spigolatori" di cui è vicepresidente, è molto attivo nel fermento culturale del Monregalese: “Abbiamo fatto venire qui anche Nadine Gordime, premio Nobel, perché ha un figlia che abita a Briaglia, presentando un suo racconto inedito”. Insomma se qualcuno avesse pensato di trovare un eremita o un asceta isolato nell’incotrare Bertolino si sarebbe sbagliato di grosso. Perché è piuttosto uno stilita, un antenna che capta i messaggi dell’universo. Un profeta forse? Mah; certo è bella l’immagine di una sua poesia intitolata proprio "Il Profeta". Con “Cin”, contadino d’inizio Novecento, che si inginocchia e prega ogni volta che falcia l’erba, nel rispetto massimo del Creato. Un bel messaggio per tutti noi che non sapevamo forse amare il “mare” per come lo ama lui. Il suo territorio, sua madre e la poesia che mette a fuoco, mette al centro. Pur stando fuori, sempre.