Perché il Ttip fa paura. Le ragioni dei favorevoli e dei contrari

La valutazione del professore Giampiero Bianchi (Università cattolica)

Con la discussione in corso sul Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership, cioè accordo transatlantico per il commercio e gli investimenti) si avvicina per l’Italia, e con essa per tutta l’Europa, una nuova tappa del processo di globalizzazione. Gli attori che ne stanno parlando sono due: da una parte l’Unione Europea su mandato degli stati aderenti, dall’altra gli Stati Uniti d’America: come dire le aree più sviluppate del pianeta. Insieme rappresenterebbero quasi il 50% del Pil mondiale, oltre il 30% del commercio planetario, un netto dominio nei mercati borsistici, l’eccellenza tecnologica e produttiva, con l’unico punto debole di una popolazione sottodimensionata rispetto alle capacità economiche delle due aree, per via del numero contenuto di nascite se confrontate con Africa, Asia e America Latina.

Eppure il Ttip fa paura. Dal 2013, quando vennero avviati i negoziati, è stato un crescendo di sospetti, accuse, prese di posizione contrarie, vere e proprie “demonizzazioni” pubbliche, come fossimo di fronte al principe degli inganni internazionali.

Infatti, se sul piano ufficiale il trattato in discussione è volto a integrare i due mercati europeo e degli Usa, abbattendo le residue barriere e dazi doganali e dando vita alla più grande (e potente) area di libero scambio di uomini e merci tra paesi ad economia di libero mercato, una fetta consistente dell’opinione pubblica specie in Europa, ritiene che si tratti di un accordo dai risvolti negativi e pericolosi: pochi benefici, si dice, pagati a caro prezzo sul fronte della sicurezza alimentare, commerciale e della salute e della tutela dei prodotti tipici, oltre che dei diritti dei lavoratori.

Gli argomenti dei favorevoli e quelli dei contrari al Ttip

Le critiche principali riguardano infatti un paventato abbassamento degli standard produttivi di alimenti, medicine, vaccini, prodotti agricoli, allevamenti, con lo “spettro” dell’arrivo in Europa di prodotti Usa zeppi di ogm, antibiotici, anticrittogrammi. La “liberalizzazione” dei due mercati transatlantici – dicono ancora i contrari – darebbe un colpo pesante ai diritti dei consumatori, che sarebbero messi a repentaglio dalle diverse legislazioni vigenti in Europa rispetto agli Usa specie per quanto riguarda le produzioni delle piccole e medie aziende (europee) che rischierebbero di essere schiacciate dallo strapotere delle multinazionali (americane). Un altro rischio consisterebbe nel creare sì una vasta area di movimento dei lavoratori, come già avviene nell’Unione Europea, però con l’abbattimento dei “diritti” che da noi nel vecchio continente sono più sostanziosi rispetto agli Usa. I favorevoli al Ttip, invece, elencano tutta una serie di vantaggi (oltre quelli già accennati sopra) quali: libero accesso delle imprese europee alle commesse pubbliche americane, vale a dire il forte mercato delle infrastrutture statali; “esplosione” dell’export verso gli Usa da paesi come l’Italia che ha un palmares di produzioni di prim’ordine in settori quali moda, gioielli, cibi e prodotti agro-alimentari Doc e Dop, farmaceutica (con la Germania siamo tra i primi produttori mondiali), design, mobili e arredi e così via. Insomma, perderemmo una occasione unica per dare una accelerata alla “crescita” che è il vero punto debole un po’ per tutta l’Europa, specie per i paesi mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia).

I favorevoli sostengono, in sostanza, che allargando il mercato agli Usa avremmo un moltiplicatore delle produzioni e commerci tale da compensare più che proporzionalmente gli eventuali “costi” in termini di minori tutele del lavoro, per come sono abituati a concepirlo gli statunitensi, mentre gli standard produttivi rimarrebbero quelli attualmente in vigore. Inoltre, il Ttip sarebbe anche una potente risposta all’altro accordo siglato a fine 2015, il Tpp (partenariato trans-pacifico) che ha riunito paesi quali Usa, Canada, Messico, Australia, Cile, Giappone, Filippine, Taiwan, e altri minori dell’Asia.

Si esce dalla recessione globale se si esce tutti insieme

Mentre il neo-ministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, si è affrettato a sottolineare che il mandato negoziale per il Ttip prevede che i nostri standard produttivi “non cambieranno”, precisando che “Ogm, servizi pubblici, cultura, diritti e tutele sono fuori dal negoziato”, i timori che l’accordo possa dare un colpo alla democrazia europea sarebbero fugati dal fatto che – una volta siglato – dovrebbe essere comunque approvato in serie dal Consiglio Ue, dal Parlamento Europeo e dai Parlamenti nazionali. Quindi ci sarebbe un pieno coinvolgimento dei rappresentanti dei popoli a tutti i livelli e con diritto di veto. Ma le obiezioni più sottili sono in realtà altre. Le formula al Sir il docente incaricato di storia economica e del lavoro alla facoltà di economia dell’Università Cattolica di Roma, Giampiero Bianchi. “Guardando al Ttip – afferma – dobbiamo dire che l’Italia ne avrà grandi benefici. Più si aprono i mercati più le imprese camminano, esportano, si sviluppano. Del resto sappiamo che già oggi le nostre piccole e medie imprese navigano benissimo nei mercati internazionali e si inseriscono negli interstizi delle grandi aziende e delle multinazionali. Tuttavia si registra una carenza: quella della politica che non aiuta l’opinione pubblica a capire quanto c’è in gioco, e quindi resta a sua volta vittima di fraintendimenti e di prospettive di chiusura”. Secondo Bianchi “ben diverso fu il ruolo della politica con eventi storico-economici quali il Piano Marshall, la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), la nascita del Mec (Mercato comune europeo). In quelle fasi storiche – dice – ci furono grandi operazioni politiche, discussioni accese e costruttive. Mentre oggi ci vorrebbe una politica capace di spiegare, rassicurare, chiarire che esistono sì differenze tra Europa e Usa, ma che non ci lasceremo schiacciare o abbagliare, bensì governeremo gli accordi sui quali si discute”.

E da ultimo, Bianchi sottolinea un altro aspetto: “Se vedo un limite in questo Ttip è che crea degli ‘esclusi’, troppi. Esclude infatti da un lato la Cina, dall’altro la Russia. Lascia inoltre fuori il mondo islamico al quale dovremmo invece guardare anche dal punto di vista istituzionale oltre che commerciale. Ma lascia fuori anche Africa e America Latina. Queste grandi aree hanno invece bisogno di essere ‘incluse’, se vogliamo davvero superare le gravi tensioni alle quali ogni giorno assistiamo: guerre, terrorismo, emigrazioni di massa, profughi, carestie. Si esce dalla recessione globale se si esce tutti insieme. O almeno se, fatto il Ttip, si annuncerà un qualcosa di analogo anche verso i paesi più poveri e le aree di esclusione”. Prendendo seriamente questa valutazione del prof. Bianchi, dobbiamo dire, in conclusione, che – purtroppo – intenzioni del genere al momento non è possibile riscontrarle, almeno sul piano delle dichiarazioni formali di coloro che stanno trattando.