Si fa presto a parlare di democrazia. La forma di governo in cui la sovranità appartiene al popolo è un ideale a cui tutti (o quasi) almeno formalmente si richiamano. Ma nella realtà? Anche a fermare lo sguardo sull’Europa e sulle aree culturalmente e geograficamente contigue, il quadro presenta i segni di un profondo disagio. Un disagio che si manifesta in due grandi filoni solo apparentemente contrapposti: da un lato élites politico-culturali nazionali e globali sempre più autoreferenziali e incapaci di rappresentare le istanze reali dei cittadini; dall’altro una tentazione populista che in forme più o meno acute sembra insinuarsi anche nelle democrazie più mature e con conseguenze imprevedibili. Ne abbiamo ragionato con Angelo Rinella, professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato presso la Lumsa, nonché preside della Facoltà di giurisprudenza della stessa Università.
Professore, proviamo ad allargare lo sguardo: quante vere democrazie ci sono oggi nel mondo?
Il quadro mondiale è estremamente complesso ed è veramente difficile dare una risposta alla domanda, anche perché sono molto varie le declinazioni che il termine democrazia assume nei diversi contesti. Si può però individuare una chiave di lettura. La democrazia come viene intesa nella tradizione occidentale ha una radice precisa che è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, alla fine del Settecento. È in quella sede che l’idea di democrazia viene messa in stretto rapporto con l’idea di Costituzione. Al punto che la domanda andrebbe posta così: quali sono i Paesi con Costituzioni democratiche?
Una Costituzione democratica si fonda su due principi fondamentali: la separazione dei poteri e il riconoscimento di diritti e di libertà garantiti non solo sulla Carta, ma attraverso meccanismi capaci di sottrarli alla disponibilità delle mutevoli maggioranze politiche. Con questa chiave di lettura si possono valutare le diverse realtà nella concretezza delle situazioni, perché a ben vedere la democrazia è il punto di equilibrio sempre in divenire tra l’autorità di chi governa e la libertà di chi è governato.
Non esiste la democrazia migliore in astratto, esiste la migliore democrazia possibile in quel momento e in quel Paese, tenendo conto anche di tutti i fattori di tipo giuridico, sociale, culturale, economico.
Molti osservatori ritengono che la democrazia così come la conosciamo noi, la democrazia rappresentativa, attraversi una fase di profonda crisi anche in Europa, a tutto vantaggio della cosiddetta democrazia diretta. Condivide quest’analisi?
Non ci sono alternative alla democrazia rappresentativa. Bisogna dirlo chiaramente. L’idea della democrazia diretta poteva funzionare nell’antica Atene quando il numero di cittadini che concorrevano all’amministrazione era estremamente ridotto. Nelle democrazie moderne si può esprimere attraverso alcuni istituti come il referendum, la petizione, la proposta di legge d’iniziativa popolare. Strumenti di democrazia diretta possono essere utili per testare la saldatura tra rappresentanti e rappresentati. Lo stesso referendum sulla Brexit, a rigore, è stato un grande sondaggio d’opinione perché il primo ministro avrà comunque bisogno di un passaggio parlamentare prima di avviare le procedure di uscita dall’Unione europea.
La crisi non è nel meccanismo della rappresentanza, ma nella politica. È questa che ha perso colpi nel rapporto con i cittadini. Per quanto possa essere limpido e aggiornato il linguaggio delle regole della democrazia, non potrà mai sostituire il compito della politica ed è una questione principalmente sociale e culturale.
Quanto ha influito su queste dinamiche l’affermazione delle nuove tecnologie e di internet in particolare?
L’arena politica non si può esaurire nel rapporto tra il singolo e la schermata di un computer, né i blog sono sufficienti ad assicurare quella dialettica politica che è alimento indispensabile della democrazia. Sono fortemente convinto che la democrazia abbia ancora bisogno di luoghi reali di partecipazione. Paradossalmente l’uso delle tecnologie come surrogato della partecipazione induce nel cittadino una forma di pigrizia civile, ne banalizza il ruolo. Ma essere cittadini è un mestiere difficile. Anche eleggere i propri rappresentanti è un compito formidabile. Se davvero ci si impegnasse nello scegliere i migliori, com’è nel significato originario della parola eligere, si renderebbe un grande servizio alla comunità.
Si parla spesso nel dibattito pubblico del pericolo di una deriva populista anche in Europa e negli Usa. Ma che cosa si deve intendere esattamente per populismo, evitando che nella critica a questo s’insinui anche un’elitaria diffidenza per il “popolo” a cui, anche secondo la nostra Costituzione, appartiene la sovranità?
Il popolo è l’insieme dei cittadini con i loro diritti e doveri. E se prima avevo detto che essere cittadini è un mestiere difficile, aggiungo che essere popolo richiede un impegno serio e continuativo. Per questo è fondamentale che esistano dei luoghi di formazione e d’informazione, di discussione e di partecipazione. Il populismo fa leva sulla demagogia e contribuisce alla degenerazione della democrazia. Non è fondato sulla piena partecipazione consapevole e cosciente dei cittadini, ma sulla manipolazione della coscienza popolare. Si tratta di un fenomeno che ha trovato la sua massima espressione nei regimi totalitari.