Annalena Tonelli – 1

Testimoni del Risorto 02.11.2016

Sembra proprio che non le basti il tanto che già fa, animata com’è da “preoccupazione e desiderio insaziabile di condividere i problemi degli svantaggiati”. A New York nel ghetto di Harlem, come a Forlì nella “bidonville” della sua città, sempre si compromette con gli ultimi e i più poveri. C’è da stupirsi di cosa riesce a fare questa ragazza, capace di coniugare i suoi studi di giurisprudenza con i problemi sociali più impellenti della sua epoca, dall’Opera don Pippo, che si occupa di “ragazze svantaggiate e rifiutate dalle loro famiglie”, al “Casermone” forlivese, dove l’emergenza abitativa si sposa con la delinquenza, dalla San Vincenzo alla Fuci, dal brefotrofio al carcere minorile, dai problemi della fame nel mondo alla fondazione del monastero di clausura di Lagrimone. Anzi, come prevedibile, questi ultimi diventano preminenti al punto da far passare in second’ordine anche gli studi, in cui tra l’altro riesce molto bene; e ci vuole tutta l’ostinazione dei genitori per convincerla a laurearsi comunque, anche se si vede lontano un miglio che nel suo futuro non ci potrà essere carriera forense, perché fin da adesso i poveri hanno in lei il primo posto. E non in nome di un facile pauperismo, che nei sessantottini poteva anche andar di moda, ma con il proposito specifico di farli “divenire individui più sani in una società più sana e capire la salute come benessere totale delle creature dal punto di vista fisico, mentale e sociale”. Con una laurea in tasca, lascia l’Italia a gennaio 1969 avendo come destinazione il Kenya e l’incarico di insegnante in una scuola superiore dei Missionari della Consolata: è solo una parentesi, perché il deserto chiama e lei vi si sente irresistibilmente attratta. Fa le valigie per il deserto di Wajir, un villaggio nel nord-est del Kenya, dove le sembra di meglio poter “predicare il vangelo con la vita” in ambiente musulmano, nello stile di padre De Foucauld, da cui si sente fortemente plasmata. Proprio in questo villaggio, su un terreno regalato dall’autorità locale ma soprattutto aprendo un conto direttamente con la Provvidenza, fa sorgere dal nulla un centro per disabili. Per Annalena Tonelli è arrivato il momento di lasciare l’insegnamento per dedicarsi esclusivamente ai tubercolotici: “mi innamorai di loro, e fu amore per la vita. I malati di tubercolosi erano in un reparto da disperati e quello che più spaccava il cuore era il loro abbandono, la loro sofferenza, senza nessun tipo di conforto”. Perché, come in altre culture la lebbra, la tubercolosi diventa il segno di una punizione mandata da Dio per un peccato commesso, palese o nascosto. Comincia con l’andare a trovarli, portando loro la cosa più banale eppur preziosa, che ci sia: l’acqua piovana, in sostituzione di quella salatissima che viene loro fornita e proveniente dai pozzi di Wajir. Si muove in modo un po’ goffo e certamente inesperto, in mezzo alla diffidenza e ai pregiudizi, sapendo che tutto è contro di lei: “ero giovane e dunque non degna né di ascolto né di rispetto, ero bianca e dunque disprezzata da quella razza che si considera superiore a tutti (bianchi, neri, gialli, appartenenti a qualsiasi nazionalità che non sia la loro), ero cristiana e dunque disprezzata, rifiutata, temuta”. Incredibilmente riesce a fare breccia nei cuori di quei disperati, increduli e meravigliati da una donna che regala sorrisi, non fa proseliti, nulla chiede in cambio e, soprattutto, che “li serve sulle ginocchia”. Ed è così che “dopo qualche anno, ogni malato consapevole di essere alla fine, voleva solo me accanto per morire sentendosi amato”. Nel 1976 l’Organizzazione mondiale della Sanità le affida la responsabilità di un progetto pilota per la cura della tubercolosi mediante la somministrazione giornaliera di farmaci per sei mesi. L’esperimento viene effettuato sui nomadi del deserto, invitati a trasferirsi con la loro capanna mobile nei dintorni del Centro, per poter essere attentamente monitorati nell’assunzione della terapia da Annalena e da due-tre volontarie. E i risultati, sorprendenti, efficaci e duraturi, permetteranno all’Oms di esportare il progetto in altre località e continuare a essere applicato anche oggi. Intanto il Centro di riabilitazione che ha preso vita comincia ad aprire le sue porte alle più svariate forme di handicap, dai poliomielitici ai ciechi, dai sordomuti agli handicappati fisici e mentali, categorie di persone che in quel mondo contano ancora meno dei tubercolotici.
(1 - Continua)