Fra Daniele da Samarate – 1

Testimoni del Risorto 30.11.2016

È una storia di puro eroismo e di ordinaria santità, quella di Felice Rossini, che inizia in Italia, precisamente nel Milanese, e finisce in Brasile; 48 anni di vita naturale, 33 di vita religiosa, 26 come Missionario, 15 da lebbroso in mezzo agli altri lebbrosi. Per certi versi ricorda l’itinerario spirituale di un altro “lebbroso illustre”, Damiano di Molokai, ora annoverato tra i santi della Chiesa universale, se non fosse che nel nostro caso il martirio è più oscuro e la vicenda meno conosciuta. Tutto inizia nel 1876 a Samarate, in Lombardia, dove Felice vede la luce il 15 giugno e da dove parte 14 anni dopo per il convento cappuccino di Sovere con in tasca una lettera del suo parroco che lo “raccomanda” ai frati, riassunta in una valutazione che oggi sa di profezia: “farà col tempo una riuscita veramente felice, e darà motivo di consolazioni ai Superiori e all’Ordine intero”. Entrato Felice in convento, ne esce come fra Daniele da Samarate, con in mano, ancora semplice studente, il biglietto di sola andata per il Brasile che rischia seriamente di non utilizzare, perché tre mesi prima della partenza si trova puntati contro i fucili di una nostra vecchia conoscenza fossanese, il generale Bava Beccaris. Durante i moti milanesi del 9 maggio 1898, fra Daniele viene infatti scambiato per un rivoltoso insieme a 34 confratelli e alla folla dei miserabili che attende un piatto di minestra davanti al convento, vede in faccia la morte e pensa seriamente di dover rinunciare per sempre al suo sogno missionario. Come Dio vuole, nessun frate ci rimette la pelle e il 30 agosto sbarca in Brasile, raggiungendo poi il successivo 22 settembre la sua destinazione di Canindé, nello stato del Cearà. Dopo l’ordinazione viene destinato alla Colonia agricola del Prata, che sta attraversando un periodo di grosse difficoltà economiche. Vi arriva giusto in tempo per assistere al massacro di Alto Alegre, in conseguenza del quale, sulle sue venticinquenni spalle ricade la responsabilità dell’intera Colonia, che non solo riesce a far uscire dai debiti, ma addirittura a far sopravvivere, barcamenandosi, come dice, “tra incudine e martello” tra l’obbedienza ai Superiori, che ne vogliono la chiusura, e gli ordini dell’Autorità locale, che gli intimano di farla regolarmente funzionare. Nei 13 anni di permanenza riesce a far arrivare nuovi trattori dalla Germania, tracciare strade, introdurre il telefono, costruire case e due collegi, impiantare una ferrovia, edificare una chiesa, introdurre macchinari all’avanguardia per la lavorazione del cotone e dello zucchero, avviare un piccolo ospedale, riorganizzare la parrocchiale, predicare, dedicarsi ai poveri ed ai lebbrosi, visitare i cristiani dispersi nelle foreste. In mezzo a tutto il fervore della sua spossante attività ecco però comparire i primi disturbi di salute, all’inizio fatti risalire ad un’origine artritica, che si teme evolva in sclerodermia, e nell’incertezza della diagnosi si dispone il suo rientro in Italia, alla ricerca di un clima e di cure più adeguate. È un rientro che fa male al cuore, non solo del padre Daniele ma addirittura del Governo del Parà, disposto addirittura a sostenere le spese di qualsiasi cura, se necessarie anche in Germania, pur di riavere pienamente attivo quel missionario che si è reso così benemerito in terra brasiliana. Il viaggio fa una provvidenziale deviazione a Lourdes, alla ricerca di un miracolo che il padre invoca, insieme ad altri ammalati, in modo speciale durante la processione eucaristica e che non arriva. In compenso, una voce interiore, a lui chiaramente comprensibile, gli sussurra che “riceverai altra grazia... la tua malattia sarà ad maiorem Dei gloriam, e per il maggior tuo bene spirituale”. E l’ “altra grazia” arriva subito, perché da quel preciso istante “mi sono trovato completamente trasformato: un senso di indicibile conformità, accompagnato da una infinita giocondità e allegria, invase la mia mente, il mio cuore, tutto il mio essere... e da quel momento non ho più perso un solo minuto di serenità, e d’allora in poi non ho più fatto una preghiera per la mia guarigione”. La diagnosi, spietata, arriva infatti alcuni giorni dopo, da uno dei più famosi dermatologi di Roma, con sentenza inappellabile: lebbra, di cui è stato contagiato, probabilmente per la puntura di un insetto, in una capanna spersa nella foresta, dove era entrato per portare gli ultimi sacramenti ad una lebbrosa.
(1 - continua)