Don Isidoro Meschi

Testimoni del Risorto 25.01.2017

In Lombardia la sua morte passa alle cronache come “il delitto di San Valentino”, perché avvenuto nella gelida sera del 14 febbraio 1991. E nella cronaca nera sarebbe rimasta, come tanti altri analoghi fatti di sangue, se non ci si fosse resi conto, come già ebbe a dire il cardinal Martini il giorno dei funerali, che quella morte “non è una semplice disgrazia, non è una semplice perdita di un prete giovane, non è un semplice vuoto, ma un grande segno evangelico”. Ed è esattamente per questa ragione che, 26 anni dopo, la Chiesa milanese si sta adoperando perché, con l’inizio del processo di beatificazione, si avveri la profezia di Martini e la morte di don Isidoro Meschi “un giorno possa essere un segno per tutta la Chiesa e fare parte della santità della Chiesa”. Lolo, come tutti lo conoscono, nato a Merate nel 1945, cresce, con una sorella e un fratello, in un ambiente caldo di fede e di carità operosa ed è forse anche per questo che già a 6 anni è innamorato di Gesù; anzi, questa passione è in lui così forte e così ben alimentata, da farlo entrare a 14 anni in seminario, per essere un giorno “tutto di Gesù” e per poterlo portare agli altri. È la morte improvvisa di papà, a soli 46 anni, a dare il primo scossone alla sua vocazione, perché mamma lo vorrebbe riavere a casa e solo la sua caparbietà lo fa stare in seminario malgrado tutto. Diventa prete il 28 giugno 1969 e, tra i suoi primi impegni pastorali e la direzione del settimanale diocesano, subito si delineano i tratti essenziali del suo ministero, in cui la sua capacità di comprensione e di accoglienza lo fanno diventare prete dei giovani. In pieno clima sessantottino, caratterizzato da ribellioni e contestazioni, la sua straordinaria coerenza di vita imprime credibilità alle sue prediche, che per questo lasciano il segno. È astemio, mangia lo stretto indispensabile, ha un abbigliamento pulito e decoroso ma sobrio e riciclato, difficilmente accetta regali e non gradisce neanche i caffè; quando proprio non può rifiutare, siano maglioni o denaro e persino il pigiama, tutto finisce nelle mani dei barboni o di chiunque non se la passa tanto bene. Lo constatano il giorno in cui deve essere ricoverato in ospedale per un incidente e gli devono comprare un pigiama che non ha, come pure il giorno in cui dovranno comporre il suo corpo nella bara e non gli potranno mettere addosso che vestiti rattoppati. Prete di tanta preghiera e di prolungata sosta nei banchi della chiesa, direttore spirituale di rara efficacia e di dolce incisività, si rivela soprattutto uomo di frontiera o, se vogliamo, per usare un termine oggi di moda, attento alle periferie esistenziali del suo tempo, caratterizzato dall’eroina che comincia a serpeggiare tra i giovani. Rubando tempo al sonno, rinunciando alle ferie “perché c’è sempre qualcuno che ha bisogno d’aiuto”, studia psicologia ed elabora un proprio metodo di riabilitazione e di recupero dalle dipendenze, condensandolo nel suo volume “Dallo sballo all’empatia”. Ad inizio anni Ottanta don Lolo, confidando solo nelle sue forze, nel suo stipendio di insegnante di religione e nell’opera di alcuni volontari, ristruttura una vecchia cascina di Busto Arsizio, facendola diventare il centro di recupero “Marco Riva”. Qui trascorre tutto il suo tempo libero come terapeuta, coordinatore, sostenitore degli sforzi di chi come lui crede che ai giovani entrati nel tunnel della droga occorra offrire una seconda possibilità. “Davanti a qualsiasi fratello, abbiate il coraggio di non chiudere né mente, né cuore”, insegna ai suoi giovani attingendo al suo vissuto di prete degli sbandati e dei disagiati, tanto da far dire a qualcuno che lo conosce bene “Lolo, chi ha la fortuna di conoscerti non può dire di non aver conosciuto Gesù”. Oggetto delle sue cure, tra gli altri, anche Maurizio, gravemente psicolabile, sul cui recupero tuttavia don Lolo ha scommesso, procurandogli occasioni di lavoro e tentativi di cura, investendo molto del suo carisma e dell’ascendente che ha su di lui. Fino a quella sera, in cui Maurizio esce di casa armato di coltello per “aggiustare i conti” con quel prete che si interessa dei drogati e non solo di lui. Più disturbato del solito, quella sera Maurizio va in escandescenze; don Lolo, che lo sa armato, per evitargli qualche sciocchezza ai danni dei giovani dei Centro, lo accompagna fuori, al buio, cercando di calmarlo, ma viene freddato con una coltellata dritta al cuore. Nel testamento di pochi mesi prima aveva scritto di essere un “prete felice”, estremamente grato al Signore di avergli permesso di “raggiungere almeno un traguardo: quello di rimanere nell’insipienza del rancore, proprio verso nessuno”.