Fra Giuseppe Ghezzi

Testimoni del Risorto 26.04.2017

Sarà pure figlio cadetto (cioè, per farla semplice, maschio non primogenito), ma sempre di conte si tratta; e tale fan sentire, dal giorno della nascita, nel 1872, quel ragazzo dalla salute fragile, destinato un giorno ad essere Conte di Poggio Aquilone in quanto figlio dell’avvocato Pasquale, Duca di Carpignano, e della nobildonna Carmela Carrozzini, Baronessa di Soleto. Vivace, impulsivo, a volte anche prepotente, studia in casa come la famiglia può permettersi di fare e come allora si usava, ma a 16 anni si aggravano le sue condizioni di salute e solo la Madonna di Pompei lo salva da un delicato e rischioso intervento chirurgico. La malattia lo aveva progressivamente isolato, facendogli preferire la tranquillità della sua camera a qualsiasi contatto umano: insieme alla salute fisica, la Madonna gli fa anche il regalo di “spingerlo” fuori, facendolo impegnare a servizio degli altri. Aiuta in parrocchia, fa catechismo, lavora per le Opere missionarie, soprattutto comincia ad avere un occhio attento alle povertà del momento, prima nella San Vincenzo, poi anche a titolo personale verso i tanti poveri che trova lungo le strade. Devoto per natura e per tradizione di famiglia, il suo cristianesimo fa un salto di qualità con l’apertura ai poveri, da aiutare, ma soprattutto da evangelizzare e confortare. Sembra che in questo riesca particolarmente bene: se, infatti, per soccorrerli economicamente ha bisogno degli altri, in primo luogo di mamma e poi di tanti benefattori spesso anonimi che si servono di lui per le loro opere di carità, nascono invece dal suo cuore, cioè sono esclusivamente sue, le parole di consolazione e di speranza che regala ai poveri. Intanto, però, il giovane conte comincia ad abituarsi a tendere la mano e impara anche l’umiliazione di farsi dire di no. Di pari passo alla tessitura di questa rete di carità comincia anche l’intenso lavoro di modellare e modificare il suo carattere, innamorandosi di Francesco d’Assisi, il dolce e umile fratello universale che della sua vita ha saputo fare un capolavoro di pazienza e mitezza. Cosicché gli sembra naturale, dopo la morte quasi improvvisa di papà seguita a breve distanza da quella di mamma, andare nel 1905 a bussare al Convento francescano di S. Antonio di Lecce. La cosa che non può prevedere è l’accoglienza non proprio entusiasta dei frati, sia per l’età considerata non più giovanile (33 anni!) e sia per la notoria sua appartenenza alla nobiltà cittadina. Mentre il vescovo di Lecce gli farebbe ponti d’oro pur di averlo nel seminario diocesano, il nostro povero conte si adatta invece a far anticamera al convento: o frate o niente, anche perché l’unica condizione che pone è di essere per tutta la vita  frate questuante, senza arrivare mai al sacerdozio. Con la pazienza, che è riuscito a conquistare, la vince lui. Entra in noviziato nel 1906 arrivando solo nel 1909 alla prima professione come fratello laico e nel 1915 a quella solenne, perché anche la salute si mette di mezzo, tornando a vacillare. Facendo un certo scalpore in città, butta alle ortiche il titolo nobiliare e la parte di patrimonio che gli spetterebbe, dando inizio a quello che farà per tutta la vita: interminabili questue porta a porta, a mendicare cibo, raccogliere anche rifiuti sgarbati, collezionare insulti e fare incetta di beffe da parte dei soliti buontemponi. Attraversa i due conflitti mondiali, non potendo altro fare che pregare e offrire le sue sofferenze per le giovani vite massacrate sui vari fronti. Il “conte con la bisaccia” raccoglie, ma soprattutto semina. Continua cioè, come faceva a casa, a consigliare, confortare, incoraggiare, consolare, tanto che è più quello che dona che quello che riceve in carità. Una brutta infezione ad un piede gli causa l’amputazione (naturalmente senza anestesia) di un mignolo, seguita da piaghe insanabili nelle gambe che gli rendono sempre più faticoso il camminare, fino a costringerlo solo più a trascinarsi da una casa all’altra. Costretto dal 1948 in sedia a rotelle per una frattura del femore, mentre le sue mani fanno scorrere incessantemente i grani del rosario, la gente prende l’abitudine di restituire all’insignificante fraticello le visite che egli per 40 anni aveva fatto nelle loro case. Non sono visite, per così dire, disinteressate: da lui cercano ancora un consiglio e una parola di speranza e addirittura si sparge la voce di guarigioni miracolose ottenute grazie alla sua preghiera. Il 9 febbraio 1955 fra Giuseppe Ghezzi si spegne dolcemente; nel 2000 Giovani Paolo II ha riconosciuto l’eroicità delle sue virtù.