A Davos l’Europa si è fatta sentire

EUROPA rubrica di Franco Chittolina

È diventato un appuntamento cui non mancare quello che ogni anno vede riuniti a Davos, in Svizzera, i potenti di questo mondo. È una singolare partita che si gioca in terreno neutro e che vede sfilare e confrontarsi politici, imprenditori e banchieri di tutto il mondo. Sulla scena si alternano i principali protagonisti del momento: l’anno scorso era stato il turno del Presidente cinese Xi Jinping, quest’anno sembrava toccare a Donald Trump, dopo 18 anni che un Presidente Usa mancava da Davos.
Con sorpresa per molti osservatori, il copione non è stato quello previsto: ad occupare la scena è stata prevalentemente l’Europa, con i suoi leader che hanno parlato, almeno per una volta, ad una voce sola. Alla tribuna si sono alternati la Cancelliera Angela Merkel, il nostro presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il presidente francese Emmanuel Macron, il re di Spagna Filippo VI e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, convergendo tutti nel fare argine alle ultime iniziative e dichiarazioni del presidente Usa, Donald Trump.
L’Europa arrivava all’appuntamento confortata da una ripresa economica che mancava da tempo, ma anche con la fierezza del suo modello di sviluppo, fortemente integrato all’interno, ma altrettanto aperto verso l’esterno, con la conferma della scelta di rapporti multilaterali per governare la globalizzazione dei mercati. Tutto all’opposto del progetto di “America first” di Trump e delle sue ultime iniziative in materia fiscale e sui nuovi dazi decisi a protezione del mercato americano.
Un tema, quello dei rischi del neo-protezionismo americano, sul quale si sono concentrati molti interventi: a quelli europei si sono aggiunti, con accenti diversi, quelli dei primi ministri indiano e canadese, Nerendra Modi e Justin Trudeau. Particolarmente forti si sono segnalate le parole della Merkel, che si è interrogata se sia servita a qualcosa la lezione della Prima guerra mondiale, uno dei frutti avvelenati del protezionismo e dei nazionalismi di inizio Novecento. Un richiamo non banale, provenendo da una fonte tedesca e riferita all’alleato americano che in quella guerra - e nella successiva - intervenne per fermare proprio l’espansionismo della Germania, mentre oggi gli Usa rimproverano alla Germania - e alla Cina - i loro forti eccedenti commerciali.
È toccato invece a Mario Draghi alzare la voce contro il rischio di una guerra delle valute, innescata dall’indebolimento del dollaro che crea difficoltà all’euro negli scambi commerciali.
Tutti questi interventi hanno costituito una sorta di fuoco di sbarramento alle prime bordate dei ministri Usa mandati a Davos in avanscoperta da Trump, cui è toccato concludere con un intervento relativamente più temperato, ricordando che “l’America prima”, non vuol dire “America da sola”, un rischio che anche l’irruente Presidente americano probabilmente avverte nell’aria, al punto di dichiararsi nuovo campione del libero commercio e favorevole a un dollaro forte. Non al punto però di rinunciare a disattivare gli accordi multilaterali - che intanto nel Pacifico sono stati confermati anche senza gli Usa - mantenendo invece la preferenza per accordi bilaterali dai quali Trump si aspetta maggiori vantaggi.
A Davos qualcuno ha parlato di “ritrovato orgoglio” dell’Europa, indicandola come solo arbitro possibile nella dura contesa commerciale mondiale in corso. Un orgoglio che è stato frutto anche di una ritrovata unità tra i leader europei, Teresa May a parte, bisognosa di assicurarsi un mercato transatlantico in vista della perdita di terreno in quello continentale, a seguito dell’azzardo di Brexit.
Nell’Unione europea qualche nuovo fremito sembra annunciare, se non ancora una primavera, l’inizio della fine di un lungo inverno che aveva congelato l’economia e scoraggiato la politica.