Nunzio Sulprizio

Testimoni del Risorto 13.06.2018

Dicono che più d’uno, lo scorso 8 giugno, alla notizia che papa Francesco ha riconosciuto un miracolo, ottenuto per la di lui intercessione spalancandogli così le porte alla canonizzazione, si sia stupito non poco, ritenendo che il futuro santo nulla abbia fatto di eccezionale. E forse non ha tutti i torti. Una manciata di anni, una gamba cancerosa, un lavoro minorile che sa di sfruttamento disumano ed egoista: la vita di Nunzio Sulprizio è tutta qui. Anzi no, perchè bisogna aggiungere tanta pazienza, tanta eroica fortezza nel sopportare il dolore, tanto amore a Gesù Crocifisso, tanta voglia di far del bene agli altri.  Sembra nato per soffrire ed infatti colleziona tre lutti nei suoi primi nove anni di vita: prima muore papà; poi mamma, che nel frattempo si è risposata con un uomo aspro e grossolano; infine nonna, una donna dalla fede umile dolce e salda che lo alleva ed alla quale il piccolino è debitore della sua formazione cristiana. Uno zio lo accoglie in casa, ma solo per sfruttarne il lavoro nella sua bottega di fabbro, dove gli sono riservati i lavori più pesanti: c’è chi avvicina la sua vicenda a quella di David Copperfield, raccontata da Charles Dickens, perchè entrambe sono condite di torti, sofferenze e ingiustizie. Per Nunzio, ammalarsi con simili condizioni di vita è il meno che gli possa capitare; ad una salute già cagionevole si aggiunge una cancrena alla gamba che lo costringe ad usare le stampelle, ma zio non si lascia commuovere tanto facilmente. “Se non lavori non mangi”, gli dice, continuando a pretendere da lui sforzi sovrumani, per arrivare a sentenziare: “Se non puoi più alzare il maglio, starai fermo a tirare il mantice”, mentre l’infezione prosegue il suo corso, procurandogli una febbre persistente e debilitante. Non può neanche provvedere all’igiene della sua ferita come gli ha raccomandato il medico, perché le donne lo cacciano continuamente dalla fontana del villaggio per paura che ne inquini le acque. Deve così trascinarsi con la sua stampella sul crinale della montagna, dove scorre una vena d’acqua fresca e limpidissima, la stessa che adesso dicono sia miracolosa e che fanno bere ai malati che a lui si affidano. Senza ribellarsi né lamentarsi, tutto accettando e tutto perdonando, Nunzio trova conforto in prolungate soste in chiesa, in un muto colloquio con l’Eucaristia, che non ha ancora ricevuto perché nessuno si è preoccupato di ciò. Dato che proprio non ce la più a lavorare, zio lo manda ad elemosinare, ma non sempre c’è chi gli fa la carità di un tozzo di pane.  Ora la malattia di Nunzio ha un nome, che fa tremare: cancro osseo e uno zio di Napoli lo fa incontrare con il colonnello Felice Wochinger, che diventerà davvero il suo “padre putativo”. Questi lo fa ricoverare all’Ospedale degli Incurabili, dove a 15 anni suonati può finalmente fare la sua prima comunione e dove scoprono che Nunzio è davvero incurabile: se non gli tagliano la gamba è solo perché sanno che il male è inarrestabile ed è inoltre così debilitato da non essere in grado di superare l’intervento. Il suo benefattore lo manda anche alle cure termali di Ischia e solo quando si accorge che tutto è inutile lo accoglie nel suo appartamento, al Maschio Angioino, per circondarlo almeno delle sue premure e del suo affetto. Tra un ricovero e l’altro Nunzio ha il tempo per affinare la sua fede, conformarsi a Gesù Crocifisso, soffrire in silenzio per la Chiesa e i sacerdoti. Vorrebbe farsi religioso (non mancano le congregazioni che lo accoglierebbero anche così malato, perché ha già fama di santo) e nell’attesa vive un impegnativo regolamento di vita, come di consacrato nel mondo. Il 5 maggio 1836, a 19 anni appena compiuti, è ormai maturo per il cielo e completamente divorato dal cancro. Paolo VI, il 1° dicembre 1963, alla presenza dei Padri Conciliari, lo proclama beato e Nunzio diventa il protettore degli invalidi e delle vittime del lavoro, tanto che nel suo santuario di Pescosansonesco c’è una parete piena di stampelle, appartenute a ragazzi entrati con esse e usciti senza. A decretarne la canonizzazione, però, è stata la guarigione di un giovane centauro  di Taranto: le lesioni celebrali causate dal tragico impatto e i danni permanenti provocati dalla disgrazia, avrebbero dovuto causare al ragazzo importanti riduzioni motorie e invece la sua intercessione lo ha guarito: ‘inspiegabilmente’ per la scienza e ‘miracolosamente’ per la fede”.