Maria Borgato – 1

Testimoni del Risorto 11.07.2018

Per le strade del suo paese non passa inosservata. E non, come si potrebbe immaginare, per la sua particolare avvenenza (in effetti è gracile, minuta, con una salute instabile, fisicamente quasi insignificante), piuttosto perché zoppica vistosamente. È una disabile, insomma, nata con una lussazione all’anca destra, cui non ha potuto porre rimedio neanche l’intervento che ha subito a sei anni, per il quale ha sofferto tantissimo al punto da rifiutare in seguito altre operazioni. A causa di questa menomazione non ha mai gradito le amicizie chiassose né partecipato ai giochi dei coetanei, in compenso si è sempre sentita attratta verso la chiesa e le pratiche di devozione, coltivando anche il sogno di farsi suora e per di più missionaria. Peccato che la sua disabilità la renda inadatta a qualsiasi congregazione e le vieti, in particolare, di sognare la missione, per la quale servono invece donne dalla fede grande e dal fisico robusto, cioè l’opposto del suo. Il riscatto della missionaria mancata Maria Borgato, proveniente da una semplice famiglia padovana di umili contadini credenti, parte proprio di qui, dalla fede grande che le è stata donata e da lei sempre alimentata, che piano piano trasforma la sua vita in dono: se non in terra di missione, certamente a casa sua, nel suo paese, tra le famiglie, in parrocchia dove fa la catechista. Nata a Saonara nel 1898, vive nella casa paterna, insieme alla famiglia del fratello Giovanni, si mantiene con la sua attività alla scuola di ricamo aperta in paese, che è l’unico lavoro adatto per una zoppa come lei, ma le sue giornate sono lunghe e faticose, riempite di preghiera, di sacrificio e di intenso lavoro in gran parte dedicato agli altri. “Servire il prossimo in punta di piedi, soprattutto i più bisognosi, era lo scopo principale della sua vita, perché nel prossimo vedeva e incontrava Gesù”, dicono le testimonianze raccolte in questi anni, ricordando che “è lei a ricamare le tovaglie per gli altari, a pulire la chiesa, a prendersi cura del cappellano che manca di tutto, a soccorrere una ragazza madre nel bisogno, a rimanere per quaranta giorni in isolamento con un nipote colpito da difterite evitandogli così il ricovero in un lazzaretto”. Entra in contatto con la Compagnia di Sant’Orsola fondata da Sant’Angela Merici, vi aderisce, ne adotta la regola di vita e ne prende i voti. Dopo l’armistizio, nel clima di sbandamento e confusione che fa seguito all’8 settembre 1943, il suo esempio e la sua dedizione stimolano la solidarietà delle famiglie del paese nei confronti dei tanti prigionieri sbandati che cercano di evitare la deportazione in Germania nascondendosi nei campi e nei fossi e bussando di notte alle case contadine più isolate per trovare cibo e abiti civili. In paese, dove si ha stima e rispetto per questa donna semplice che, pur zoppicando, arriva a tutti e si fa in quattro per aiutare qualcuno, sono molte le famiglie che prendono esempio da lei. Mettono così il poco che hanno a disposizione di questa accozzaglia multietnica formata da sudafricani, australiani, neozelandesi, perlopiù appartenenti all’Ottava Armata inglese catturati durante la guerra d’Africa, rinchiusi in campi di prigionia, che dopo l’8 settembre si sono dati alla macchia e ora stanno cercando semplicemente di evitare di essere tradotti in Germania. Per dare la misura del fenomeno di questo sbandamento basta pensare che il comando tedesco di Padova ha messo anche una taglia: 1.800 lire per chi consegna un prigioniero inglese; 5.000 lire se il prigioniero è un ebreo. Come alternativa si può anche “scambiare” il prigioniero ottenendo in cambio il rilascio di un familiare deportato. Si vive in un clima di reciproco sospetto e di delazione che spacca le famiglie e i rapporti di vicinato. Maria, sempre in prima linea quando c’è da fare del bene, sente non solo che non può tirarsi indietro, ma che anzi è arrivato il momento di passare dal gesto di buon cuore e dall’occasionale opera di carità cristiana ad un’organizzata azione di intervento che consenta di salvare dalla deportazione il maggior numero di prigionieri, facendo varcare loro il confine svizzero. Così, quando tramite la farmacista del paese viene a conoscere la staffetta di solidarietà che padre Placido Cortese, dalla basilica di Sant’Antonio a Padova, è riuscito a mettere in piedi per tutto il Veneto, vi aderisce con slancio, senza neanche pensarci troppo su.

(1 - continua sul prossimo numero)