Maria Borgato – 2

Testimoni del Risorto 18.07.2018

Si
tratta, innanzitutto, di raccogliere quanto serve per sfamare quelle bocche in più, ma anche di trovare i soldi necessari per organizzare il loro “viaggio della salvezza”. Maria Borgato, con quella sua povera gamba più corta dell’altra, non può pedalare e forse nemmeno ha mai imparato ad andare in bicicletta. Ingaggia allora la nipote Delfina, di soli sedici anni, la figlia di suo fratello Giovanni che lei sempre ha considerato come sua figlia, che dorme in stanza con lei e che ha educato alla fede come la più affettuosa delle madri. Sarà lei a pedalare di casa in casa, dove zia la manda, perché essendo catechista da oltre vent’anni conosce tutte le famiglie e nessuna potrebbe dire di no ad una donna che non chiede per sé, ma solo per fare del bene. La casa dei Borgato diventa così centro di raccolta viveri e vestiario, ma funziona egregiamente anche come punto di prima accoglienza dei prigionieri, che qui vengono medicati, rifocillati e forniti di nuovi abiti per essere pronti ad iniziare il viaggio. Qui vengono ospitati e nascosti fino al giorno della partenza, perché Maria e Delfina si sono prese anche l’impegno di accompagnarli, di notte, alla prima tappa (per lo più la stazione di Padova), dove saranno presi in consegna da altri volontari e così, di tappa in tappa, accompagnati fino al confine di Mislianico, dove alcuni contrabbandieri pagati dagli stessi volontari, li faranno entrare in territorio svizzero. Si calcola che almeno una cinquantina di prigionieri, tra i centotrenta che si aggiravano in paese, siano stati così salvati dalla deportazione grazie all’impegno di Maria e Delfina. Tutto questo fino alla notte del 13 marzo 1944, quando tedeschi e fascisti sfondano la porta di casa Borgato, mettendola a soqquadro e portandosi via, tra gli altri, Maria e Delfina e smantellando tutta la loro fittissima rete di solidarietà. Anche padre Placido sarà fatto “sparire” e per lungo tempo nulla si saprà della sua fine cruenta. A tradirli uno dei loro ospiti, accompagnato come gli altri alla frontiera, al quale probabilmente ha fatto gola la taglia promessa dai tedeschi. Le due donne, insieme a molte altre delle loro collaboratrici, vengono incarcerate, prima a Venezia, poi dopo quattro mesi a Bolzano. Dal carcere veneziano Maria riesce a comunicare sue notizie ai familiari, con un foglietto sgrammaticato come la sua poca cultura le permette di fare, che si conclude con parole di speranza: “Non crucciatevi per me, la mia vita l’ho data a Dio perciò il soffrire è per me un vantaggio che vedrete in cielo”. È lei, piuttosto, a preoccuparsi per la nipote Delfina così giovane, quasi pentita di averla attirata in quest’impresa e di averla esposta ad un tale rischio. Quando le separano ha il tempo di sussurrarle: “Offro volentieri la mia vita perché almeno tu possa ritornare a casa viva”: Delfina, con le compagne più giovani, è deportata prima a Mauthausen poi a Linz; Maria, invece, con alcune altre, è dirottata a Ravensbrück, 80 km a nord di Berlino. Vi arriva a marzo 1945, una manciata di giorni prima della liberazione, e mentre a ciascuna viene assegnato un lavoro manuale, per lei, disabile e quindi non produttiva, si aprono ben presto le porte del forno crematorio. Non si saprà mai il giorno esatto della sua eliminazione, semplicemente non la troveranno più, come tante altre “passate per il camino”. Delfina invece tornerà a casa sana e salva, secondo il desiderio e la preghiera della zia, e fino a tre anni fa, cioè fino alla morte, ha testimoniato alle nuove generazioni l’orrore e la brutalità dei lager nazisti. Insieme alle altre che l’avevano conosciuta, ha testimoniato anche della fede di zia Maria, delle umiliazioni che le han fatto patire, delle pene che le han fatto soffrire. È così emerso che pregava sempre, anzi si chiudeva addirittura nella latrina per poter ultimare le sue devozioni senza essere disturbata o derisa dalle compagne, ma è venuta anche fuori la delicatezza con cui si fermava a consolare, confortare, accarezzare quelle che soffrivano e piangevano. Così per 70 anni, non lasciando mai cadere il ricordo e la sofferta testimonianza di fede di quella piccola donna, claudicante e insignificante, tanto che la diocesi di Padova ha finito per decidersi di avviare l’inchiesta per la sua canonizzazione, iniziata nel 2015, proprio poco prima che Delfina chiudesse gli occhi, potendo ancora tuttavia deporre come testimone “de visu” sull’eroismo della donna zoppa, che si era fatta dono. Fino alla fine.