Don Ruggero Caputo

Testimoni del Risorto 12.09.2018

Può sembrare impossibile, a chi non bazzica troppo le sacrestie, che gelosia ed invidia mettano radici anche in parrocchia, tra preti e in mezzo a fratelli di fede. Eppure c’è da ritenere che sia sempre stato così, se è vero che Pietro e Paolo sono martirizzati “per invidia e gelosia” e molto prima di loro, sempre per lo stesso motivo, Caino uccide il fratello Abele. Più di recente lo potrebbe confermare anche don
Ruggero
Caputo, che ha sofferto in modo incruento ma certo non meno doloroso. Nasce a Barletta il 1° maggio 1907, in un’umile famiglia contadina, nella quale il suo destino sembra già scritto: difatti dopo la terza elementare inizia a lavorare i campi e probabilmente lo avrebbe fatto per tutta la vita, se improvvisamente, a 19 anni, non si fosse fermato. "Tutti mi dicono di farmi prete: che devo fare?", dice un giorno a don Raffaele Dimiccoli. “Lo voglio anch’io!”, risponde semplicemente questi, che ha fama di santo e sembra aver imparato a leggere nei cuori. E non si ferma al consiglio, ma accompagna la vocazione adulta con fermezza e dolcezza, soprattutto nei tratti più difficili e ardui, quando la fatica di riprendere gli studi, familiarizzare con i libri e affiancarsi a compagni molto più giovani di lui potrebbe avere il sopravvento. C’è però da dire che Ruggero, pur non disconoscendo il ruolo di quel santo prete, attribuisce tutto il merito della nascita e del sostegno della sua vocazione alla Madonna, a cominciare da quando Questa ha messo sulle labbra di sua mamma, donna semplice e illetterata, il consiglio: “Fatti prete, figlio mio”. E a Maria continua ad affidarsi, fino a prenderne addirittura il nome, al culmine di una fiammata di devozione mariana, che negli anni Trenta, un po’ ovunque, investe i seminaristi, portandoli ad aggiungere al proprio nome di battesimo quello della Madonna, per meglio significare la loro totale appartenenza a Lei. Prete il 25 luglio 1937, inizia il suo ministero nella perenne mansione di viceparroco, tale restando fino alla morte e, per di più, con le valigie sempre pronte, perché i frequenti spostamenti da una parrocchia all’altra diventano il metodo scelto dai superiori per cercare in qualche modo di limitare e contenere il suo speciale carisma di attirare la gioventù, specialmente quella femminile, e di indirizzarla alla vocazione religiosa. Per i confratelli (fortunatamente non tutti!) è davvero inspiegabile l’eccezionale seguito che continua ad avere quel prete, da essi definito, non certo per complimento, u zappaturìcch” per evocare le sue origini contadine e per rimarcare che solo a zappar la terra dovrebbe essere capace. Invece no, si è messo in testa di coltivar vocazioni e sembra che nei suoi 43 anni da prete abbia suscitato o accompagnato qualcosa come 10 vocazioni sacerdotali, 200 vocazioni femminili alla vita religiosa e altre 50 di consacrate nel mondo. Non sanno che la sua ricetta è molto semplice e condensata in tre consigli: “Davanti al Tabernacolo devi consumare le ginocchia”, per trasmettere l’amore all’Eucaristia; “semina di Ave Maria la tua giornata”, per instillare una gran fiducia nella Madonna; “Tuo programma sia il silenzio, la solitudine, il nascondimento”, da coltivare con una frequente confessione e una saggia direzione spirituale. Più viene ostacolato, deriso e trasferito, più aumenta il consenso dei giovani, mentre don Ruggero si limita a dire, come sua unica difesa: “Le giovani non le lego alla mia persona, le metto ai piedi di Gesù!”.  E sono proprio esse a testimoniare che in questo prete tutto è limpido, puro e spirituale. “Noi ragazze, se avevamo bisogno del suo aiuto, andavamo in chiesa, sicure di trovarlo dietro la colonna, in ginocchio, per terra, davanti a Gesù Sacramentato: qui trovava la forza, l’energia che poi dava a noi… Ecco cosa ha messo nelle nostre vene: essere tutte di Gesù!”. La gelosia, declinata nelle più svariate forme di maldicenze e di calunnie, non riesce a stroncarlo, ma certamente lo fa soffrire e anche Padre Pio deve rincuorarlo a proseguire, malgrado tutto. Ciò che non può la gelosia riesce però a farlo la malattia, che lo inchioda per mesi in un dolore, che gli strazia le carni e lo stronca il 15 giugno 1980. Mentre i suoi occhi si chiudono, si aprono quelli di confratelli e superiori, che finalmente si accorgono con che perla di prete hanno avuto a che fare, tanto da sentire il bisogno di introdurre nel 2006 la sua causa di canonizzazione, che terminata nella fase diocesana, sta ora proseguendo a Roma il suo iter.