Il “santo curato”… di Mellea

Allisiardi Don Giuseppe

Se voglio rappresentarmi al vivo il santo curato d’Ars io devo pensare a don Giuseppe Allisiardi: forse per la talare, stinta e lisa pur se pulitissima; forse per le scarpe grosse, pesanti e risuolate, che in questi anni ho rivisto calzare da Papa Francesco; forse per il viso emaciato, che mi faceva immaginare digiuni e penitenze o, perlomeno, un’alimentazione non sufficiente. Sicuramente per il cuore, che mi sembra identico, e che ho sempre pensato debba battere nel petto di un prete, che sia sotto una talare, un clergyman o una semplice t-shirt. Nato a Maddalene il 27 maggio 1918, don Allisiardi è ordinato prete il 12 aprile 1941 e, da quella data in poi, sua specializzazione diventano gli incarichi “secondari” nelle piccole parrocchie della nostra piccola diocesi. Sicuramente proporzionati a lui, alle sue capacità, ma è singolare e significativo che in ciascuna lasci un’impronta luminosa di santità umile, di preghiera fiduciosa, di grande carità.

La più popolosa parrocchia che gli vien chiesto di servire è Genola, di cui è “vicecurato” fino al 1944, passando poi, sempre come “vicecurato”, a San Sebastiano (1944), Grinzano (1948-1955), Monsola (1955-1963). Tra una “vicecura” e l’altra lo mandano come “rettore” a Santa Lucia (1945-1948) e a Termine (1963-1980), quindi, come “economo spirituale”, a Gerbo (1945), Gerbola (1962) e San Vittore (1963). Sembrandogli di non avere la vocazione di restare “rettore a vita”, sogna di avere una parrocchia tutta sua e il 1º novembre 1980, a 62 anni suonati, lo “promuovono” da rettore di Termine a priore di Mellea, 250 anime, che però ha il pregio di avere come titolare la stessa “Madonna della neve” che ha già tanto amato a Termine. Sembra quasi che la Madonna lo preceda e gli voglia far compagnia e un prete “mariano” come lui non può proprio augurarsi di meglio. Per Termine di Villafalletto, in cui si ferma più a lungo, ben 17 anni, è l’ultimo rettore residente e qui non è stato mai dimenticato, tanto che alcuni anni fa gli hanno dedicato anche la piazzetta, a lato della chiesa. Di Mellea, dove gli chiudono gli occhi il 4 settembre 1988, invece, è stato il penultimo parroco e qui il suo arrivo è preceduto dalla fama di austerità, riserbo e semplicità che gli era propria. “Troppo santo per noi”, si diceva all’epoca, e lo testimoniava don Martina, che lo scriveva addirittura su questo giornale al momento della morte, aggiungendo che, forse, ben poco di elogiativo c’era in questo giudizio. Come a dire: “Ci accontentiamo di molto meno, purché sia un prete moderno ed efficiente”. Era diffuso, infatti, il timore che il nuovo priore non fosse né l’uno né l’altro e forse non si sbagliavano: sulla modernità e sull’efficienza senz’altro, perché era un sacerdote perennemente in talare, dal viso smunto e dalla salute gracile, non attraente e forse anche un po’ temuto perché appartenente ad “un’altra epoca”. Avevano provato anche a farlo presente al vescovo, ricordano i massari dell’epoca, ma mons. Severino Poletto era stato drastico: “Prendere o lasciare”, nel senso che, rifiutandolo, Mellea avrebbe corso il serio rischio, già allora, di restare senza sacerdote residente.

Neppure sulla santità, però, quelli di Mellea, che hanno buon fiuto, si sbagliavano. Adesso dicono, semplicemente e con una vena di rimpianto: “Era davvero un santo” e citano, quasi a conferma, un passo dell’omelia del vescovo Poletto, in occasione dei funerali, così incisivo ed eloquente che gli si è stampato in mente e che con buona approssimazione suona così: “Non sono venuto qui per proclamarlo santo, ma voi pregatelo pure tranquillamente come se fosse un santo”. Una donna mi confida che “mangiava pochissimo per penitenza e se qualche volta gli regalavano qualcosa sapeva subito a chi portarla”, mentre un’altra mi assicura che “era famoso per l’efficacia delle sue benedizioni sia quando il bestiame era malato che quando le case erano infestate dai topi: le bestie guarivano e i topi se ne andavano subito. Ma sono mica io che faccio queste cose, diceva, è Dio che vi vuol bene. Voi pregate, pregate…e vedrete i miracoli che Dio farà per voi”. E gli uomini mi raccontano dei calli sulle ginocchia che constatarono rivestendone la salma e dell’impressione che ne ebbero, a dimostrazione delle lunghe ore che si sapeva egli trascorreva in preghiera e penitenza, soprattutto quando i suoi parrocchiani si attardavano nelle feste notturne. E non sono pochi quelli cui sembra di riconoscere oggi l’impronta della formazione di don Allisiardi nella testimonianza di fede di alcuni giovani di allora, adesso padri di famiglia. “Quello è uno dei giovani di don Allisiardi”, mi sussurrano: quasi un certificato di garanzia o, piuttosto, l’attestazione di ciò che resta di un prete. E, credetemi, questo non è davvero poco, soprattutto se si vede ancora a trentacinque anni di distanza.