Si vede sempre più spesso Cesca Mosso, gran cappello in testa e carretto alla mano, elemosinare legna o qualche dozzina di uova dai contadini del circondario, ben sapendo che beneficiario sarà qualcuno dei “suoi” poveri, oppure caricarsi sulle spalle sacchi di segatura e cascami, prelevati di soppiatto dalla falegnameria dei fratelli, per accendere la stufa di qualche tugurio. Poi ci sono anche gli “inviti a sorpresa” per qualche poveretta incontrata per strada, grazie ai quali casa sua diventa veramente aperta a tutti, specialmente da quando riesce ad avere un alloggetto tutto per lei, nel quale può dispensare carità al riparo da occhi indiscreti. “Ai poveri spettano sempre le cose più belle”, ripete a chi, pur con le migliori intenzioni, le rimprovera la sua grande prodigalità, perché è fermamente convinta che “crescerò nella santità, nella misura in cui crescerò nel distacco, nell’amore alla povertà”. Sulle sue labbra fiorisce spesso la frase che le ha insegnato don Giorgio Canale, “Padre” delle Missionarie: “Il Signore non ha bisogno di persone che scorrazzano, ma di anime che preghino, amino, soffrano”.
Cesca, che ha imparato a vivere di preghiera intessuta d’amore, e che fin dall’adolescenza ha conosciuto la sofferenza fisica e morale, ha dunque le carte in regola per vivere in pienezza la sua missionarietà. Il primo intervento ai reni, però, non ha risolto il problema della sua malattia e infruttuoso si rivela anche il secondo, tanto che la sua salute declina in modo precipitoso. La crescente debolezza, il cuore affaticato e il respiro affannoso la costringono a lunghi periodi di convalescenza, specialmente a Centallo presso la sorella Caterina, sposata con il medico Spartaco Sappa. Pur tra gli affetti familiari, che non le mancano, Cesca sente comunque la necessità della presenza delle sorelle che condividono l’ideale e l’associazione, le pesa non poter partecipare alle celebrazioni che hanno sempre scandito la sua giornata, soprattutto avverte la mancanza della comunione quotidiana: desideri che riesce ad appagare in pieno solo quando le sue condizioni si aggravano ulteriormente ed ottiene di ritornare a Fossano.
Facendo appello alle sue forze residue, può realizzare anche il sogno della sua consacrazione definitiva tra le Missionarie diocesane, già rimandata altre volte per le sue condizioni di salute: sapendo che ormai i suoi giorni sono contati, bisogna accelerare i tempi perché non la si può certo privare di gustare la gioia del suo giorno più bello, come una sposa del giorno delle sue nozze, anche se questa sua consacrazione (come si usava allora) dovrà restare coperta dal riserbo più assoluto, pure con i familiari. Poi si mette a letto, per consumare la sua offerta nel silenzio e nel dolore, sollevata soltanto dalla comunione che ogni mattina adesso può ricevere. “Desidero tanto vedere Gesù, sono contenta di morire, ma è questo passaggio che mi fa paura”, sussurra, umanissima e semplice, quando è ormai consapevole della morte imminente. Ha il tempo di rinnovare “con tutto il cuore” l’offerta della vita per la sua Famiglia spirituale, per la Chiesa, le vocazioni, il sacerdozio: un’offerta già all’origine della sua vocazione di Missionaria diocesana, che ora sul suo letto di morte assume però un peso ed una valenza nuovi.
Spira dolcemente il 25 ottobre 1956. Pochi giorni prima aveva confidato ad un’amica: “Questa mattina ho fatto una cosa bella che non ho ancora detto a nessuno; ho scritto alla Città dei ragazzi di Cuneo che vengano a prendere la mia fisarmonica. È la cosa più bella che ho… così loro fanno la banda e chissà! chi la suonerà mi dirà un’Ave Maria?”. Da quel giorno Cesca diventa per la “città” la “santina della fisarmonica” e tale resta anche per chi, pur non avendola mai sentita suonare, ancora oggi la ricorda.
(3-fine)
Coscienti dell’insufficienza di questo profilo per conoscere Cesca, consigliamo a chi ha la possibilità di cercare (magari in biblioteca) la biografia, ora non più in commercio, “I fioretti di una giovane Novecento”, ristampata con il titolo “La ragazza della fisarmonica”.