Don Bertotti, “el Priur del Burguè” – 1ª parte

don Francesco Bertotti

Se, come vorrebbe Papa Francesco, l’odore che ha addosso non è propriamente di pecora, è soltanto perché nella sua parrocchia difficilmente se ne trovano. Di quelle a quattro zampe, s’intende, perché quelle metaforiche sono parecchie, ma perlopiù si tratta di pescatori e muratori, dalla vita grama e dai guadagni scarsi, sovente in lotta per metter insieme il pranzo con la cena, con un sacco di bocche da sfamare e magari tanta rabbia dentro che a volte provano a sfogare anche con Dio, colpevole ai loro occhi di far piovere sempre sul bagnato, visto che i poveri son sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se soltanto attraverso i polmoni di mio padre io ho potuto respirato l’aria del Burguè, il suo odore ha invece irrimediabilmente impregnato la tonaca lisa del priur dön Bertott che qui ha vissuto per circa 40 anni.
Don Francesco Bertotti nasce a Fossano il 28 luglio 1883 e la vita gli presenta in anticipo un conto salato, perché a due anni è già orfano di padre e a sette anche di madre e sono così due zie materne di borgo Sant’Antonio a doversi prendere cura di lui. Entra in seminario e brucia le tappe, nel senso che a neppure 22 anni ha già finito gli studi e, in attesa dell’età canonica per l’ordinazione, gli affidano l’insegnamento di storia e matematica e nelle inedite vesti di docente sembra che riesca pure bene, se dopo sessant’anni c’è ancora chi ricorda le sue limpide ed accessibili lezioni e afferma di aver utilizzato a più riprese le sue efficaci sintesi redatte secondo il suo inconfondibile stile, non solo di insegnamento ma anche di vita: evitare ogni fronzolo e ogni divagazione, puntare all’essenziale. Ordinato sacerdote per mano di mons. Manacorda il 22 settembre 1906, è subito spedito a Centallo ad occuparsi di bambini e ragazzi durante l’arcipretura di don Menardi. Anche qui lascia il segno, perché, almeno fino a qualche decennio fa, non era inconsueto trovare nei nonnini centallesi un ricordo ancora riconoscente e vivo di quel loro antico curato, che evidentemente aveva seminato bene e in profondità.
A giugno 1912 deve far le valigie per Monsola, di cui è stato eletto priore e dove resta esattamente dieci anni, facendosi anche qui rimpiangere non poco quando lo spediscono, nel 1922 appunto, a borgo Vecchio, che è una parrocchia difficile, con numerose sacche di povertà se non di vera e propria miseria, attraversata da vampate di accesa propaganda socialista, con una partecipazione piuttosto scarsa alle celebrazioni. Il nuovo priore non si spaventa, sempre più convinto (secondo l’antico assioma di Virgilio) che “l’amore vince ogni cosa”. Anche i più refrattari ai discorsi religiosi, a poco a poco, si lasciano infatti conquistare dallo stile semplice, dall’aspetto umile e, soprattutto, dal cuore grande di don Bertotti. Non è infatti mistero per nessuno che chiunque bussi alla sua porta riesce a trovare l’aiuto che sta cercando, senza troppe formalità e senza troppe indagini, al punto che qualcuno dei suoi più stretti collaboratori finisce per rimproverare el priur di aiutare magari chi non lo “merita” oppure non ne ha così “bisogno”. Inutile dire che con lui è fiato sprecato, perché don Bertotti ha le mani bucate e il cuore troppo tenero. E se una predilezione può avere, questa è proprio per chi è più “lontano” e meno sensibile alle proposte religiose.

(1 - continua sul prossimo)