600 candeline per il beato Bartolomeo (2ª parte)

I documenti d’archivio consultati dal nostro don Felice Dompè perdono nuovamente di vista il padre Bartolomeo alla scadenza del suo secondo priorato (1459). Ricompare a Savigliano nel 1463 (il che fa presumere che abbia trascorso i precedenti quattro anni sul territorio circostante, impegnato nella predicazione e nella direzione spirituale) per raccogliere la difficilissima eredità del confratello padre Buronzo, che dal 1446 era ufficialmente titolare della circoscrizione inquisitoriale ligure-pedemontana-lombarda, cioè inquisitore a tutti gli effetti di una vasta zona (comprendente il nostro territorio) attraversata da eresie e caratterizzata in particolare da numerose incursioni (lo possiamo dire, con buona pace dell’attuale proficuo dialogo ecumenico) dei valdesi. Lo stile incarnato dal padre Buronzo è perfettamente in linea con quanto ci tramanda l’immaginario collettivo: energico e determinato per natura, si sposta sotto scorta, si appoggia sistematicamente al potere temporale dei duchi di Savoia, non si fa scrupolo (ovviamente in linea con la legislazione antiereticale dell’epoca) di rendersi promotore di “clamorosi processi, solenni autodafé, roghi e carcerazioni”, ai quali ovviamente i valdesi rispondono con altrettanta ferocia, rendendosi tra l’altro protagonisti nel 1463 di un attacco in piena regola: il convento domenicano di Savigliano viene vandalizzato e il padre Buronzo si salva per puro miracolo da una morte pressoché certa, ma da questa terribile avventura esce così stremato e terrorizzato da rinunciare all’incarico inquisitoriale.

Gli subentra così nostro padre Bartolomeo, che accetta in totale obbedienza, ma inaugura uno stile nuovo di ministero. A cominciare dalla sua “scorta”, assolutamente non più armata e composta semplicemente da due confratelli, ma soprattutto con un diverso approccio, che il Dompè prova così a sintetizzare: “girò in lungo e in largo la sua circoscrizione e sognò la conversione degli eretici, trattandoli con benevolenza e comprensione, convincendoli con la scienza e affascinandoli con la sua santità”. Non basta certo questo cambio di rotta a cancellare o anche solo a far dimenticare le precedenti vicendevoli sanguinose ferocie, come d’altronde ben dimostrano, anche sei secoli dopo, tutte le attuali difficoltà del dialogo ecumenico. Così resta sempre alta la tensione, mentre diffidenza e ostilità accompagnano gli spostamenti e la predicazione di padre Bartolomeo. Che le avverte e le respira, preparandosi anche al peggio, tanto che, quando ad aprile 1466 gli viene segnalata l’intensa attività propagandistica di alcuni valdesi sul territorio di Cervere e viene richiesta la sua presenza su quel territorio, ha la netta percezione del pericolo che lo attende. “Io che mi chiamo Bartolomeo de Cerveriis non sono mai stato a Cervere: oggi vi devo andare, chiamatovi dal mio ministero, e là terminerò la mia vita”: dice proprio così, la mattina del 21 aprile, al padre Cristoforo da Caramagna, al quale fa la sua confessione generale prima di lasciare il convento saviglianese e incamminarsi a piedi, insieme a due confratelli, verso la nostra diocesi e, in particolare, verso quel lembo di terra che era appartenuta alla sua famiglia. Una vera e propria premonizione, che la dice lunga sul clima che si respira in quel periodo e sui pericoli che si corrono, cui il padre Bartolomeo va incontro con serenità e piena consapevolezza.

Che i suoi timori non siano infondati i tre domenicani lo possono toccare con mano quella sera stessa, sul tramonto, prima ancora di arrivare nel centro abitato di Cervere, quando la loro piccola comitiva è attaccata da cinque sicari sbucati dai folti cespugli di quella, che da quel giorno in poi, sarà chiamata “la cumba ‘d la mort”. Appare fin troppo evidente che il vero unico obbiettivo dell’agguato è proprio lui, il padre Bartolomeo, l’inquisitore temuto per la sua oratoria e la sua feconda predicazione più ancora del suo predecessore per i suoi metodi cruenti. Diversamente non si spiegherebbe che, dei due confratelli che lo accompagnano, uno solo rimanga ferito, seppur seriamente, alla coscia, mentre l’altro riesca addirittura a fuggire e a raggiungere il paese per dare l’allarme. Con le loro alabarde due dei cinque sicari fanno scempio del padre Bartolomeo, lasciato agonizzante sul terreno in attesa dei soccorsi, che comunque arrivano in ritardo. Le antiche pergamene consultate da don Dompè restituiscono il nome degli assassini, che hanno tutto il tempo di allontanarsi indisturbati e anche di espatriare, per evitare processo e condanna. Unica inevitabile sanzione, cui non riescono a sottrarsi, la confisca dei loro beni decretata dai Savoia, ma è pur sempre poca cosa per il delitto di cui si sono macchiati.

(2-continua)