La piccola Imelda: padre Gasparino la chiama proprio così. Non solo perché alta come un soldo di cacio, piuttosto perché riconosce in lei uno dei “piccoli” di cui è stato detto, da un Tale che non si può smentire, che nel regno dei cieli finiscono per essere più grandi addirittura di Giovanni Battista. E scusate se è poco. La chiama però anche “trottolino”, che nel vocabolario del Padre non è propriamente un complimento, dato che oltre ad indicare il carattere vivace, entusiasta, in perenne movimento, caratteristico di Imelda, per lui rappresenta anche la tentazione di lasciarsi ingrovigliare facilmente nei traffici. E questa è appunto una debolezza di Imelda. Suor Imelda Sturpino (al battesimo è stata chiamata Maria) nasce a Centallo nel 1934, guarda caso nel giorno della festa di Tutti i Santi, e nella sua famiglia si respira fede profonda, si prega e si legge molto, soprattutto libri e riviste missionarie. Per questo non stupisce che, a 22 anni, cerchi alla Città dei Ragazzi di Cuneo la realizzazione del suo sogno di essere missionaria e di vivere a servizio dei poveri. Comincia a lavorare con i ragazzi di strada, quelli accolti e seguiti da don Gasparino negli anni immediatamente successivi alla guerra.
Nel 1963 è destinata alla Corea, che raggiunge dopo 47 giorni di navigazione e dove ad attenderla ci sono i lebbrosi: da curare, fasciare e soprattutto da amare. Vi resta per quasi trent’anni, mandando a casa, di tanto in tanto, qualche riverbero della gioia profonda che sta sperimentando in mezzo ai più poveri. “Capisco ogni giorno di più che la mia vocazione missionaria è un grande dono di Dio e che non basterà tutta l’eternità per ringraziare…quanta gioia e quanta commozione ho provato quando ho visto apparire le prime baracche di Pusan, in Corea. Signore, come ringraziarti? Come trovare parole per manifestare la mia felicità? Ora devo essere ben decisa a vivere da vera missionaria”. Naturalmente il primo ostacolo, non indifferente, è rappresentato dalla lingua coreana, “davvero difficile”, come lei stessa ammette, e che invece le è indispensabile per lanciarsi nell’apostolato, dovendo però poi confessare con umiltà che “anche se imparassi bene il coreano, ma non avessi la carità, non vale niente; anche se sono venuta in missione e servo i malati di lebbra, senza la carità non vale niente”.
Dalla sua penna, soprattutto dal suo cuore, esce la più bella definizione della missione che, scrive, “è impegno, è fatica, è coscienziosità, è arte: l’arte di dare se stessi. L’arte di spezzettare questa vita per gli altri, imparando a non essere avara del mio tempo, della mia persona, del mio cuore”. Che sia la strada giusta per far breccia nei cuori, ben al di là della conoscenza e dell’uso dell’alfabeto coreano, lo dimostra un aneddoto, registrato da suor Imelda con la sua consueta semplicità: “L’altro giorno stavo facendo un po’ di catechismo e dicevo che Gesù aveva fatto dei miracoli per provare la sua divinità; una nonna mi ha detto che per lei il miracolo più grosso, che la faceva pensare di più al Signore, era che noi, suore, per il Signore fossimo partite dalla nostra patria lontana e fossimo venuti fin qui….Viva il buon cuore e la semplicità!”. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto quando gli anni si assommano agli anni, da vivere sempre nel nascondimento, nel silenzio, senza far rumore, distribuendo semplicemente amore e cure mediche, durante giornate monotonamente scandite dall’identico ritmo e che i suoi lebbrosi provano a descrivere così: “Sosta ogni giorno nelle case dei malati privi degli arti e li aiuta nel lavoro, condivide con noi tutto quanto riceve. Riserva ogni giorno tre ore all’ambulatorio; raggiunge poi altri tre villaggi come il nostro dove i malati trovano cure e aiuto. Sale sugli autobus con le borse piene di medicinali. Quando uno di noi è ricoverato in ospedale, Imelda resta lì per l’assistenza giorno e notte”.
A scoprire “la piccola suora dei lebbrosi” è un giornalista, che ne fa un articolo per un diffusissimo periodico coreano, rattristando Imelda e facendola piangere per tre giorni. Per riuscire a scattare una foto che ne documenti l’attività ha dovuto attendere ore e ore, appostato dietro un muretto, ma la sua fatica è stata premiata, perché anche la televisione coreana ha parlato della suorina e dei suoi lebbrosi di Ko-Chang e alla fine il Governo le ha dato la medaglia al valor militare nello stadio, davanti a cinquemila persone e, quel che più conta per Imelda, un vistoso assegno di sei milioni da spendere per i suoi poveri.
(1-continua)