Da Fossano al New York Times

Roberto Orgiu è sviluppatore dell'App del quotidiano americano

roberto orgiu new york times
Fossano e il New York Times, probabilmente il più prestigioso quotidiano al mondo, non hanno nulla in comune. Almeno all’apparenza. Se non fosse per Roberto Orgiu, che dalla città degli Acaja “scrive cose da far eseguire al computer” o meglio, all’app del giornale americano. Il trentaduenne fossanese, infatti, da tre anni è uno degli sviluppatori dell’applicazione del quotidiano per chi utilizza il sistema operativo Android. Roberto, diplomato al liceo linguistico e con una laurea in Informatica all’Università di Torino, si è trovato al “posto giusto al momento giusto, come spesso accade - racconta -. Ho incontrato in una convention un ragazzo che già lavorava per il Nyt e abbiamo iniziato a chiacchierare. Abbiamo scoperto di condividere la visione sul nostro mestiere, sulle modalità di gestione delle app e su molti altri aspetti della tecnologia. Lui mi ha proposto di candidarmi a sviluppatore e così ho fatto. Il colloquio, anche quello fatto tramite computer, è andato bene e ora sono dipendente del New York Times e faccio parte della squadra che gestisce l’app”. 
Quanti siete in questa “squadra?”
Una ventina di persone. Siamo suddivisi in sottogruppi e ognuno di noi si occupa di una parte dell’app. Probabilmente nessuno, vista la sua complessità, la conosce tutta fino in fondo (dal punto di vista dei codici).
Immagino che tu non sia l’unico straniero, come ve la cavate con il fuso orario? 
C’è molta comprensione e voglia di trovare una soluzione che vada bene a tutti. Noi sviluppatori siamo sparsi un po’ in tutto il mondo e, soprattutto quando dobbiamo organizzare delle riunioni, che ovviamente avvengono via web, cerchiamo di trovare una soluzione che vada bene per tutti. Solitamente è prima mattina in America, che significa pomeriggio qui da noi. Poi ogni tanto sforiamo di un’ora per evitare la levataccia mattutina a qualcuno che è chiamato a far parte della riunione.
Non è un problema il fatto che tu sia lontano? 
Affatto. Questa cosa di essere riuniti tutti nello stesso spazio, o di dover necessariamente lavorare in un luogo specifico è molto italiana, europea anzi. Negli Usa, ma anche in altri Stati, la cosa importante è che tu lavori e lavori bene. Poi se per concentrarti hai bisogno di stare sotto un ombrellone sulle spiagge di Bali a loro non cambia nulla. È la qualità del lavoro l’unico aspetto che conta.
Hai un ufficio o lavori da casa? 
Mi sono allestito il mio ufficio in casa. Ho provato alcune soluzioni di co-working ma non riuscivo a mantenere la concentrazione necessaria. Così ho tutti i miei computer e i telefoni che mi servono in una stanza adibita a studio.
Che cosa significa per te lavorare per il New York Times? 
Dal punto di vista umano non potevo trovare un lavoro migliore. Il New York Times è vocato alla professionalità e alla continua ricerca della verità. Una vocazione che non c’è solo negli articoli, ma in “tutto” il giornale. Questo si ripercuote, in modo estremamente positivo, sull’ambiente di lavoro. Dal punto di vista professionale è un incarico stimolante, che fa venire voglia di migliorare sempre.
La tecnologia, dal punto di vista delle app, sta facendo passi da gigante. Il Nyt è pioniere o segue il flusso delle novità? 
Certo non siamo come Google o Microsoft, perché per mestiere sono loro che “creano” la nuova tecnologia. Ma diciamo che proviamo ad essere sempre i secondi.
In questi tre anni di lavoro al Nyt, quanto è cambiata per gli utenti l’app che contribuisci a creare? 
Tantissimo. Cambia un po’ ogni giorno, di pari passo - come dicevamo - con l’evoluzione della tecnologia. Non mi aspettavo potesse trasformarsi e progredire a questa velocità e soprattutto che questo lavoro potesse avere, alla fine, un impatto così importante sulle persone. È incredibile.
Che effetto ti fa tutto questo? 
Fa indubbiamente piacere. Ti senti parte di una squadra. Il giornale è visto, anche dall’interno, come una grande famiglia e tu sei uno dei membri. Una grande famiglia vocata alla verità e alla serietà.
Se tu non potessi gestire completamente il tuo lavoro via web ora non potresti andare negli Usa, per via del Coronavirus. In alcuni Paesi le notizie sulla diffusione del virus hanno indicato gli italiani come “untori” primari di questa epidemia. Ti hanno chiesto qualcosa i tuoi colleghi e datori di lavoro? 
Si sono semplicemente assicurati che io stessi bene. Insomma, siamo il New York Times, sappiamo bene come si è diffuso il virus. Certo, ora che è un problema di portata mondiale, i nostri capi si sono premurati di sottolineare che ognuno può lavorare dove vuole, prediligendo lo smart working (io lo facevo già da casa, ma altri no) perché le priorità sono il benessere e la salute. Insomma, un posto serio, grandissimo, ma che non perde umanità.