Giovanni Matteo, di sette anni più giovane (nato cioè nel 1552), di Giovenale Ancina è il fratello diverso, aggettivo da intendersi nel suo senso letterale: meno brillante negli studi, ma non per questo meno colto; certamente meno portato per l’oratoria, più riflessivo e taciturno; forse maggiormente dotato di senso pratico e di predisposizione per gli affari, il che non vuol dire meno santo del fratello. Semplicemente di altra pasta, come capita tra fratelli, visto che il buon Dio non fa in serie gli uomini e tantomeno i santi. Subisce probabilmente il fascino del grande fratello e con lui condivide, dopo la di lui “conversione” a seguito del famoso “dies irae” ascoltato a Savigliano, una particolare attenzione per i poveri, sicuramente ereditata dalla loro mamma, Lucia Araudini, che quando veniva rimproverata per la sua prodigalità, invariabilmente rispondeva: “Legatemi le mani se non volete che io dia”. Insieme a ciò hanno in comune la vocazione religiosa, che matura lentamente soprattutto da quando, a Roma, Giovenale viene in contatto con Filippo Neri e fa esperienza dello “stilenuovo” della vita dell’Oratorio, in cui “si fanno, ogni dì, bellissimi ragionamenti spirituali sopra l’Evangelo, delle virtù e vita dei santi,e alla fine si fa un poco di musica per consolare e ricreare li spiriti stracchi da li discorsi precedenti”. La prospettiva di entrare nella congregazione di Filippo Neri è tale da fargli scrivere immediatamente con entusiasmo al fratello a Fossano, con l’augurio: “Dio voglia che anche voi siate con me, come una volta, ma presto, affinché quanto prima, abbracciamo una nuova vita”.
Siamo a fine maggio del 1576 e Giovanni Matteo, più in fretta che può, si libera di tutte le proprietà derivate a lui e al fratello dall’eredità paterna (che sono veramente tante, a Fossano innanzitutto, ma anche sul territorio circostante, ad esempio a Mellea e a Centallo), distribuendone il ricavato ai poveri e raggiungendo poi Giovenale a Roma, dove per oltre un anno si lascia modellare dalla direzione spirituale di Filippo Neri. Entrano insieme in Congregazione il 1° ottobre 1578 e da questo momento la sua vita si svolge ancora più in simbiosi con quella del fratello, ma in subordine, a cominciare dall’ordinazione diaconale, che riceve il 9 giugno 1582 mentre Giovenale è ordinato sacerdote. Al sacerdozio arriva un anno dopo e subito lo attendono 55 anni di fedelissimo e ininterrotto ministero sacerdotale, svolto anche in posti di responsabilità e di assoluta fiducia, costantemente però all’insegna dell’umiltà e del nascondimento che sono le sue principali caratteristiche. Per 17 anni a fianco di San Filippo, ne assorbe anch’egli lo spirito e lo stile, malgrado una salute piuttosto delicata e un tenore di vita penitente e mortificato fino all’eroismo che molte volte i superiori devono moderare per evitarne gli eccessi. “Nella nostra Congregazione abbiamo poche Regole, ma se osserviamo quelle, tanto ci basta per essersanti”, è solito ripetere e precede tutti con l’esempio, soprattutto con una ubbidienza pronta, decisa ed eroica.
Alla morte del fondatore, suo riferimento spirituale continua ad essere, oltre il fratello Giovenale, San Francesco di Sales, amico intimo e profondo estimatore dei fratelli Ancina che meglio di altri ha intuito la santità di entrambi, per cui cerca spesso un confronto con loro per un reciproco arricchimento. Profondamente convinto che aderendo alla Congregazione, vivendone lo spirito e rispettandone le regole “possiamo andare in Paradiso, in carrozza”, deve però fare i conti, oltreché con la salute cagionevole, anche con la tremenda malattia degli scrupoli che lo tormenta fin sul letto di morte e, dicono i biografi, “ne fu talmente molestato, che, per quiete di sua coscienza, fu stimato bene che desistesse dal carico di confessare”. Dispensato quindi dal ministero del confessionale, per sentirsi in qualche modo utile alla Congregazione, si dedica così alla catechesi, in particolar modo dei semplici, dei poveri, degli emarginati e i risultati che raccoglie dimostrano quanto sia stato fruttuoso questo suo sacrificio. Rientrato a Fossano, carico di anni e di malanni, vi muore il 3 (o il 4) aprile 1638, a 86 anni. Stupisce la fama di santità da cui è subito circondato, e la moltitudine di fossanesi che fa a gara per accaparrarsi una sua reliquia: sono quelli che, meglio di chiunque altro, hanno capito da subito la grandezza di questo umile Oratoriano che davvero nulla aveva fatto di speciale se non cercare di inerpicarsi, malgrado i suoi limiti, sulla non facile strada della perfezione e altro non aveva cercato nella sua vita se non “il merito dell’obbedienza”.
(3-fine)