L’anno scorso a questa epoca mi trovavo ancora in Brasile, quando a fine agosto mi giungevano echi della indignazione generale in Italia e in Europa per i roghi che stavano devastando la foresta amazzonica. Scelgo quindi di iniziare questo breve contributo collocando alcuni dati per rispolverare questa indignazione.
L’incendio di agosto 2019 nell’Amazzonia boliviana per creare pascoli ha fatto sparire un’area di foresta grande come il Lazio: 17.000 Kmq (= 1.700.000 ettari). Per aiutare chi di superfici proprio non se ne intende: sommando la superficie delle nostre belle e ridenti valli cuneesi di Vermenagna, Gesso, Stura, Grana e Maira arriviamo a un totale di 170.600 ettari… il 10 % (…!) di ciò che è andato in fumo nella sola Bolivia nel solo agosto 2019. Possiamo immaginare lo spettacolo desolante e le conseguenze pratiche se questi nostri luoghi si trasformassero in un inferno di cenere?
Ma gli incendi non sono l’unico dramma in Amazzonia… “Nel territorio di Piquiá de Baixo (Açailândia – Maranhão) c’è la più grande miniera a cielo aperto di estrazione di ferro del mondo. La ferrovia della multinazionale Vale trasporta 300 mila tonnellate di minerale di ferro al giorno, per l'esportazione anche in Italia. Immaginiamo cosa significa scavare per sottrarre 300.000 tonnellate di un terreno ogni giorno?
«Nel 2019, quando è esplosa la crisi degli incendi in Amazzonia, i paesi del G7 hanno proposto aiuti per 20 milioni di dollari al Brasile per contrastare i roghi. Secondo una stima di Earthsight, nel 2018 gli stessi Paesi del G7 hanno importato dal Brasile 737,9 milioni di dollari soltanto di carne di manzo, la materia prima più legata alla deforestazione. L’Europa e l’Italia hanno un ruolo di primo piano nell’importazione di materie prime legate alla deforestazione tropicale. Un dossier pubblicato nei giorni scorsi da Etifor, ente di ricerca legato all’Università di Padova, stima che dal 2000 al 2010 l’Europa abbia importato in media 36.585 milioni di tonnellate l’anno di carne, soia e olio di palma, equivalenti a 225.400 ettari l’anno di deforestazione. L’Italia nello stesso arco temporale ha causato ogni anno con le proprie importazioni 28.250 ettari di deforestazione». [fonte: corriere.it, Francesco de Augustinis, 21 luglio 2020]
Le responsabilità europee e italiane nell’articolo citato sopra ci mostrano quanto siano patetiche le nostre levate di scudi indignati verso il presidente brasiliano Bolsonaro e le multinazionali… O cambiamo i nostri stili di vita o non si potrà fare assolutamente nulla per contrastare queste devastazioni.

Quello che Papa Francesco vuol comunicare con l’enciclica Laudato si’ del maggio 2015, col sinodo sull’Amazzonia svoltosi a Roma tra il 6 e il 27 ottobre 2019 e con la più recente esortazione post sinodale “Querida Amazonia” del febbraio 2020 non si deve prima di tutto intendere come una pia esortazione a prenderci a cuore un mondo e popoli minacciati da una distruzione imminente. Alcuni stralci liberamente scelti dai nn. 71 e 72 di “Querida Amazonia” ci aiutano a capire perché noi abbiamo bisogno di loro: «I popoli amazzonici esprimono l’autentica qualità della vita come un «buon vivere» che implica armonia personale, familiare, comunitaria… in una vita austera e semplice. I popoli indigeni potrebbero aiutarci a scoprire che cos’è una felice sobrietà e in questo senso hanno molto da insegnarci. Mentre lottiamo per loro e con loro, siamo chiamati ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro. Gli abitanti delle città hanno bisogno di lasciarsi rieducare di fronte al consumismo ansioso e all’isolamento urbano».
Nel giugno del 2019 mi trovavo in Amazzonia in una scuola indigena, nel cuore della foresta, nella diocesi di Parintins nello stato di Amazônas, al confine col Parà. Una scuola nata dal sogno di un missionario del Pime, Enrico Uggè, e dalla volontà degli indigeni Sateré Mawé con una triplice finalità: permettere ai giovani di completare le scuole superiori senza uscire dalla foresta, conservare lingua e tradizioni originali e infine promuovere una economia di sussistenza basata su agricoltura e allevamento a conduzione familiare. Scambiavo due parole in portoghese con un simpatico giovane, Genivaldo. Gli chiedevo come si traducessero le prime parole del “Padre nostro”. Lui mi rispose che si traduce con “Ui Ywot”. Bene, Genivaldo… e come si traduce l’espressione “Padre mio”? Si traduce ancora con la medesima espressione “Ui Ywot”, poiché nella nostra lingua non è possibile distinguere ciò che è mio da ciò che è nostro – è stata la risposta.
don Fabrizio Forte, Città dei Ragazzi, Cuneo