Dalla Russia un bacio che si schiude nell’eternità (1ª parte)

Lamberto Mario

Quella di Tancin Lamberto è una delle tante “morti bianche”, che pure 90 anni fa si registravano in cantieri ed officine. Già al lavoro alle prime luci dell’alba, come da sua abitudine di lavoratore indefesso che ha tante bocche da sfamare, quel mattino del 31 luglio 1930, è un giovedì, precipita dall’impalcatura che sta montando in via San Biagio, nel cantiere della casa in costruzione del “mulinè” Garelli. Sono appena le 7,30 del mattino: il volo di sei metri non gli lascia scampo e così ai primi soccorritori altro non resta che constatarne il decesso, a 41 anni appena. Tancin arrivava da Cherasco, frazione Cappellazzo, con moglie e il più grande dei figli al seguito (i primi due erano tornati quasi subito in paradiso), conquistandosi a Centallo la fama di uomo onesto e di buon cristiano, che cerca di conciliare il suo lavoro di muratore con il servizio di organista della mitica cantoria parrocchiale di Materin Tonello e Giuanin Sereno. Nella stagione invernale, poi, quando il gelo impedisce o limita fortemente l’attività dei muratori nei cantieri, arrotonda lo stipendio proponendosi come accordatore di pianoforti a domicilio, come testimoniano alcuni suoi annunci pubblicitari, pubblicati sul nostro giornale alla fine degli Anni Venti.  D’altronde, ricordano i “suoi” cantori, Tancinha “un buon orecchio” ed è un vero peccato non abbia potuto coltivare con lo studio il suo talento musicale innato.

Ora lo piange l’intero paese e nessuno, proprio nessuno, è così sprovveduto da non rendersi conto di quanta miseria questa morte lascerà dietro a sé e di quante altre vite muterà il destino. A cominciare da Antonietta, la sua vedova: sfiancata da quattordici gravidanze e con otto figli da crescere, ora non ha più occhi per piangere e braccia abbastanza lunghe per provvedere a tutti, con un figlio ancora in grembo che nascerà sei mesi dopo la morte del papà. Anche se, come ricorda la Fedeltà del 5 agosto 1930, “con slancio veramente degno d’encomio la cittadinanza seppe affermarsi nello spirito di cristiana solidarietà, provvedendo alle prime impellenti necessità in cui vennero a trovarsi la vedova e gli otto orfani”. Dato che però non si vive solo di ricordi e neanche perennemente sulle spalle degli altri, con la sua tempra di donna forte, appena può si rimbocca le maniche per cercare di mettere insieme il pranzo con la cena, con la collaborazione di figli e figlie in “età da lavoro”, che a quell’epoca e in quella specifica situazione scocca molto presto, non appena cioè riescono a trovar occupazione in casa altrui come “vacrot” o piccole “servente”, avendo come “paga” anche solo il vitto o qualche palata di grano. I più piccoli, ovviamente, devono essere collocati in collegi ed orfanotrofi, perché la povera donna, obbligata dagli eventi a lavorare, non può assicurar loro un’educazione adeguata. Anche il buon Dio, poi, ci mette del suo, quasi divertendosi a pescar vocazioni in quella casa: se ne sceglierà uno per farne un Salesiano, ne manderà un’altra tra le suore Giuseppine, mentre già si è messo da parte il primogenito Giovanni Mario Lamberto, che quando muore papà sta terminando il ginnasio nel seminario minore di Cussanio.

Il percorso scolastico di quest’ultimo è facilitato da un’intelligenza vivace e da una religiosità soda e senza fronzoli, di cui senz’altro è debitore al suo ambiente familiare. Per tutto questo, oltreché per il suo bel carattere e la sua capacità di tessere rapporti amicali, insegnanti e compagni hanno verso di lui considerazione e stima. Tra i primi basta citare don Pellegrino, che a distanza di decenni ancora ricordail contributo di studio e di ricerca che il ragazzo di Centallo in più occasioni ha offerto alle pubblicazioni del futuro cardinale di Torino; tra i secondi, il ricordo vivissimo, quasi di venerazione, che di lui conserverà fino alla fine don Giuseppe Barbero.

È la morte di papà ad investire Mario di una responsabilità nuova, quasi di capofamiglia, che soprattutto un tempo incombe sul più grande di una nidiata orfana. È la sua sensibilità e l’amore per mamma a spingerlo ad interrompere gli studi, uscire dal seminario e trovarsi un lavoro per aiutare la famiglia a tirare avanti. Di questa decisione, certamente sofferta, non ci sono giunte testimonianze dirette; solo alcune sfumature, colte qua e là nei suoi scritti, lasciano intravvedere che questo passo assolutamente non è stato indolore. “Non sia mai che in alcun modo rompiamo il destino od intralciamo la via alla chiamata del Signore. Che Iddio ci scampi da una simile responsabilità”, scrive a mamma, frastornata dalle vocazioni che sbocciano in casa sua e che deve così rinunciare all’aiuto economico che i figli cresciuti potrebbero iniziare a portare in casa. Una cosa è certa: il seminario ha svolto egregiamente il suo compito, forgiando in lui la tempra del cristiano autentico, perché, scrive ancora Mario, “se Dio ha voluto così, è certamente per il nostro meglio. Le azioni di Dio sono tutte fatte a fin di bene”.

(1 - continua)