Il levaldigese “grandissimo nella carità” (1ª parte)

Francesco Ferreri

La notizia ce la serve su un piatto d’argento l’amico Piergiorgio da Levaldigi, perché la nostra rubrica è fatta soprattutto con il passaparola tra quanti hanno il “pallino” della santità della porta accanto. D’altronde, un vescovo “di” Levaldigi, morto per di più in odore di santità non è cosa di tutti i giorni.  E se fino all’altro ieri di monsignor Francesco Ferreri mai avevamo sentito nominare, lo scoprire ora che fu «grande nella pazienza, ancor più grande nell'umiltà e grandissimo nella carità», come recita il compendio della sua vita che i suoi cristiani vollero far scrivere sulla tomba, ci fa rimpiangere un po’ non averlo conosciuto prima. Siamo in attesa che qualcuno dalla sua terra natale ci prenda gusto a indagare sulle sue origini familiari e sui suoi eventuali discendenti ancora in vita, perché di lui ora sappiamo soltanto che nasce a Levaldigi nel 1740 (anche se uno storico passionista ha di recente fissato la data di nascita al 14 ottobre 1745) da una famiglia piuttosto facoltosa, il che non gli impedisce a vent’anni di entrare nella Congregazione dei Passionisti, accolto dallo stesso fondatore San Paolo della Croce, anch’egli piemontese di Ovada.

Non ha problemi con gli studi, anzi rivela una preferenza per le lingue straniere e in queste si specializza, oltre che in filosofia, dopo l’ordinazione sacerdotale. Dal 1775 superiore del convento di Ceccano (Frosinone), l’ubbidienza lo porta nel 1781 in Bulgaria, che Propaganda Fide ha deciso di affidare come terra di missione ai Passionisti e vi giunge insieme al confratello padre Sperandio nel mese di ottobre attraversando la Croazia e la Transilvania, con un viaggio avventuroso di oltre sessanta giorni, in mezzo a stenti, fatiche e pericoli. Ad attenderli a Bucarest un clima ancor più pesante di persecuzioni e diffidenze, che fanno subito capire loro le condizioni in cui potranno fare apostolato in quella terra a prevalenza musulmana. Tanto per cominciare, scoprono che il sultano ha vietato l’ingresso nelle proprie terre a chi non ha un lasciapassare, che attendono per sei mesi, praticamente reclusi in un convento francescano. Ne approfittano per imparare la lingua, gli usi e i costumi delle popolazioni, tra le quali iniziano ad operare sotto le mentite spoglie di commercianti tedeschi.

Trovano una fede vivissima, sopravvissuta in minuscoli gruppi di cattolici sparsi su un territorio vastissimo, malgrado le pressioni della predominante fede islamica e della stessa chiesa ortodossa. È per loro una lieta sorpresa scoprire però che per questi cattolici, ad esempio, “bestemmie e spergiuri sono termini sconosciuti, pochi chiudono a chiave le loro case, nessuno il granaio, perché non c’è pericolo che uno rubi all’altro”. La diocesi di Nicopoli è rimasta con un solo sacerdote e il vescovo assegna loro quattro villaggi, uno dei quali raggiungibile solo con otto ore di cammino. I due missionari passano così attraverso un’infinità di peripezie, a cominciare da un’estrema povertà che li porta a condividere le privazioni dei più poveri, che spesso devono farsi carico delle necessità dei due missionari e provvedere al loro sostentamento. Lo fanno volentieri e di buon cuore, dimostrando praticamente quanto tengano al servizio religioso che questi svolgono. Da parte loro i missionari si mantengono coltivando l’orto e tenendo un pollaio, in uno stile di assoluta povertà, che li porta a vivere non in vere abitazioni ma in umili tuguri interrati, appena sufficienti a ripararli dalle intemperie, in cui “c’è grande umidità e non si può conservare niente”. Dormono sulla nuda terra “e ogni volta che ci svegliamo abbiamo un nuovo dolore, ora sul fianco, ora sulla spalla, ora da qualche altra parte, così che molte volte conviene alzarsi e passeggiare intanto che passa il dolore”, anche se “moltissime sono le notti intere che bisogna vegliare per assistere i malati”, perché in quelle sperdute località, senza medici né medicine, l’arrivo del missionario è salutato anche per un minimo di assistenza sanitaria.

Il territorio è infestato da bande di predoni e delinquenti comuni per cui gli spostamenti da un villaggio all’altro non sono esenti da pericoli; i due capiscono perché il loro predecessore “se ne andava da un luogo all’altro armato con pistole alla cintura”, ma essi scelgono di viaggiare “armati con il solo crocifisso sul petto, sotto le vesti, e di non avere nessuna arma”. Non ci sono chiese: le celebrazioni avvengono perlopiù nelle stalle, specialmente di buon mattino o a sera inoltrata, per non provocare le reazioni dei turchi. Inizialmente non trovano grosse difficoltà ad esercitare il loro ministero, grazie anche alle mille precauzioni e alla prudenza adottata. Queste arriveranno in seguito, anche con carcerazioni e violenze fisiche. Le cronache riferiscono che, in particolare a padre Ferreri, le battiture cui è stato sottoposto gli hanno leso irrimediabilmente i tendini del collo, che non riesce più a muovere liberamente. Questi, dopo sette anni di una simile vita, che gli riserva anche intense soddisfazioni pastorali perché vivissimo è il bisogno spirituale dei cattolici bulgari in perenne diaspora, rientra a Roma, diventando superiore del convento di Anguillara, sul lago di Bracciano, dove resta fino al 1792, quando gli chiedono di tornare per altri sette anni in Bulgaria.

(1 - continua)