Il prete che sussurrava non solo ai credenti

Salvagno Don Mario

Ci sono persone che solcano il cielo di una diocesi, lasciandosi dietro una scia di luce che lo scorrere degli anni non riesce a spegnere. Tra queste, anche solo a giudicare da quanto il ricordo è vivo, un posto preminente è indubbiamente occupato da don Mario Salvagno. In verità lo si dovrebbe chiamare “Abate”, non come titolo da lui preteso o perché ne voglia rivendicare i relativi privilegi, quanto perché connesso alla parrocchia saviglianese di cui è stato investito, malgrado egli ci tenga a rilevare, e lo preciserà ancora sul letto di morte al card. Severino Poletto, “che la canonica e la chiesa di Sant’Andrea non sono un monastero, ma la casa di tutti”. Le sue radici sono nella nostra diocesi, portando nel cuore e negli occhi il ricordo della prosperosa campagna e delle distese di frumento tra Villafalletto e Vottignasco e forse per questo la parola da lui fluisce limpida e pura, mentre i suoi occhi guardano lontano e non sembrano adattarsi a spazi angusti e confini ristretti. A dire il vero, già i compagni di seminario si sono accorti delle sue doti di eloquenza e di intelligenza: “Tutti ci dilettava”, la testimonianza è di don Giovanni Damilano, “quando si alzava a recitare quasi quotidianamente le lezioni di letteratura italiana, latina e greca o ci leggeva i suoi temi, gioielli di composizione linguistica, umanistica ed estetica”.

Sacerdote il 29 giugno 1952 insieme a don Germano Lingua e don Biagio Mondino, gli affidano l’insegnamento di Teologia e Diritto Canonico nel Seminario Maggiore, di cui diventa anche vicerettore. Nei fine settimana è impegnato come curato festivo nelle piccole comunità di Mellea, Tetti Roccia e Vottignasco, mentre gli chiedono anche di trovare il tempo per il nostro settimanale e, a partire dal 1964 con la prematura scomparsa di don Gazzera, lo fanno Rettore del nostro seminario: una variegata e multiforme attività pastorale in cui emergono, come ben ricorda don Mondino, le sue “non comuni qualità umane, di cultura e di capacità relazionale”. Gli anni del don Mario giovane sono quelli del Concilio, nella sua fase di svolgimento e della sua prima faticosa recezione, ma sono anche quelli della contestazione giovanile e degli stravolgimenti sociali, che egli attraversa ed assume con una grande apertura di mente e di cuore. Ha così un sapore decisamente conciliare anche il suo assenso a trasferirsi in diocesi di Torino (all’epoca retta dal fossanese Michele Pellegrino, che ben lo conosce e tanto lo stima), inaugurando di fatto una osmosi tra le due diocesi confinanti che in poco tempo vedrà tutte le parrocchie di Savigliano affidate e sacerdoti fossanesi. Nel caso specifico si tratta di un dono prezioso, di cui Fossano si priva a favore di Torino e, proprio in quanto tale, genera grandi aspettative e riaccende sopite speranze nella parrocchia cui è destinato.

La chiesa di Sant’Andrea torna a riempirsi, soprattutto quando è lui a celebrare e predicare. Le sue omelie respirano di Vangelo e profumano di umanità, perché sgorgano da un prete innamorato di Dio e dell’uomo. “Era una personalità forte”, scrive Corrado Galletto, “con una preparazione teologica e culturale profonda, una facilità al contatto umano sincero e non formale, una predicazione non rituale comprensibile a tutti, una predisposizione al dialogo e al confronto anche con le culture e le idee più lontane dalla religione, con una sincerità di fede e una semplicità di modi di fare che metteva a proprio agio chiunque lo incontrasse”. Inoltre, e non guasta affatto, “aveva una virtù non comune”, ricorda don Celestino Tallone, “sapeva accettare le correzioni più o meno opportune con umiltà e con riconoscenza, tanto da stupire chi le faceva, forse anche con una certa imprudenza”.

Nell’arco dei 27 anni in cui si ferma a Savigliano, “il suo ministero sacerdotale è stato un continuo e costante riferimento all’uomo, ai suoi problemi, alle sue inquietudini, alle sue speranze”, testimonia Salvatore Scommegna, riconoscendo che “don Mario è stato un prete conciliare, un prete che ha vissuto con intensità e passione il suo rapporto con la comunità di cui è stato Abate, cioè Padre, convinto che è nella comunità che Dio santifica e salva l’uomo”. Niente di diverso anche lo stesso don Mario sussurrerà al vescovo Poletto, sul letto di morte: “Sono convinto che l’evento più grande del secolo ventesimo è stato il Concilio, che perciò è la regola di vita per me, per la mia pastorale e per la vita delle nostre Comunità di Savigliano”. Anche nei momenti estremi, il suo sguardo non si ferma ai pur ampi confini della sua parrocchia, ma abbraccia la città intera con le sue quattro comunità, fino all’ultimo fedele al suo ruolo, che tutti gli riconoscono, di interprete, ponte e cerniera con la realtà cittadina nel suo complesso, anche e soprattutto nei confronti di chi nella Chiesa non si riconosce o vive ai margini di essa. La sua straordinaria capacità di ascoltare e di mediare, la sua sensibilità sociale e la sua profonda curiosità intellettuale, gli consentono di animare uno dei più interessanti “laboratori” religioso-culturali del periodo, aprendo nuove frontiere per la diffusione del Vangelo e riaccendendo in molti l’entusiasmo per la fede.

All’apice di questo suo intenso e innovativo fervore pastorale, deve suo malgrado imparare anche a convivere con un subdolo e invisibile “nemico”: chiama proprio così la forma tumorale che lo aggredisce e lentamente demolisce, costringendolo a dolorose e prolungate soste, malgrado le quali mai si spegne il suo desiderio di vivere e lavorare per la comunità, tutto offrendo e soffrendo, consapevole che mai come in quel periodo la vigna del Signore ha bisogno di operai, laboriosi e generosi anche se un po’ acciaccati. Ed è proprio attraverso questo Getsemani, in un altalenante susseguirsi di speranze e aggravamenti, che arriva alla serena accettazione dell’ineluttabile, espresso nell’appena sussurrato “Accetto la morte, accetto la morte” che il vescovo Poletto riesce a cogliere sulle sue labbra. Si spegne il 18 agosto 1997, vigilia della festa della Sanità, quasi un appuntamento in cielo con la Madonna da lui tanto teneramente amata. Sono migliaia le persone che accorrono per vederlo ancora, onorarlo, omaggiarlo. “A memoria d’uomo” scrivono i giornali dell’epoca, “non si era mai vista a Savigliano una simile partecipazione” e proprio durante i funerali si viene a scoprire, per bocca del vescovo, che per ben due volte don Mario era stato proposto per l’episcopato e che, come ricorda anche don Celestino, in entrambe aveva rifiutato, non ritenendosene degno. O, meglio ancora, preferendo continuare a farsi compagno di viaggio dei saviglianesi, per dirla con Scommegna, “dialogando con tutti, sapendo cogliere le diverse sensibilità, i diversi percorsi, i mille problemi di quanti facevano fatica e che, stanchi, erano tentati di abbandonare il cammino”.