Pochi stranieri, una concorrenza di qualità e dei difensori che costruivano sulle marcature a uomo le loro fortune. Questo era il calcio degli anni Ottanta. E questo era il calcio in cui Ezio Panero, centallese classe 1963, arrivò a calcare i campi di Serie A, togliendosi lo sfizio di giocare contro tanti campioni, come attaccante del Lecce. Oggi Ezio è Direttore tecnico del Fossano, che ha contribuito a condurre fino alla Serie D e con cui ora spera di poter centrare una salvezza che avrebbe grandissimo valore.

Ezio, partiamo da qui. Dopo un’ottima stagione da neopromossi quest’anno state trovando qualche difficoltà. Che cosa sta mancando?
Dopo cinque anni meravigliosi stiamo attraversando una fase non bellissima, ma io voglio essere sempre positivo. Credo che gli alti e bassi facciano parte della vita: così come non c’era da esaltarsi quando tutto girava per il meglio, aspettandosi il pericolo dietro l’angolo, ora occorre restare lucidi, cercando di abbandonare quell’angolo per ritrovare la giusta serenità.
Scendendo nel dettaglio, quali sono le principali difficoltà?
Diciamo che, con onestà, abbiamo capito di aver commesso alcuni errori, avendo costruito una squadra troppo giovane per affrontare un campionato così complesso. Strada facendo abbiamo apportato delle correzioni, ma, in un anno già di per sé complesso per via della pandemia, abbiamo anche dovuto fronteggiare diversi infortuni importanti. Detto questo, dobbiamo ritrovare la giusta serenità e le cose potranno ancora cambiare.
Realisticamente, quale può essere l’obiettivo?
Guardare ad ogni singola gara, senza pensare troppo ad altro. Attualmente, dobbiamo evitare gli ultimi due posti, per giocarci poi le nostre carte nei playout. Credo che sia una meta alla nostra portata e sono anche dell’idea che se riusciremo a salvarci il prossimo anno saremo grandi protagonisti in Serie D.
Ora riavvolgiamo il nastro. Nel 1982 il tuo debutto tra i grandi a Prato, quindi Civitavecchia e poi l’esperienza a Catanzaro che ha inaugurato una carriera vissuta quasi esclusivamente al Sud Italia. C’è un motivo particolare?
No, è stato per certi versi casuale. Il Torino, dove sono cresciuto calcisticamente, aveva rapporti importanti con le società del Sud: il Direttore sportivo del Civitavecchia era grande amico di Luciano Moggi (ai tempi dirigente granata, ndr), mentre il Catanzaro era un vero e proprio feudo torinese, dove venivano mandati i giovani per poterli valutare in vista di un possibile ritorno. Io, obiettivamente, non ero un giocatore all’altezza del Torino e anche per questa ragione il Catanzaro scelse di acquistarmi e, successivamente, di vendermi al Lecce.
E con i giallorossi hai vissuto i principali momenti della tua carriera. Ricordiamone uno: 9 ottobre 1988, Hellas Verona-Lecce 2-1. I tuoi primi 78 minuti in Serie A. Se ci ripensi oggi?
Mi emoziono, sicuramente. Quelli sono giorni particolari, in cui la prima domanda che ti passa per la testa è: “Ma io che ci faccio qua?” (ride, ndr). Con il senno di poi, posso dire che sono momenti che se sai lavorare duramente possono anche arrivare, ma il difficile è saperli ripetere. Io sono onesto: in Serie A facevo fatica e so bene di aver già fatto il massimo con la ventina di presenze raccolte. La Serie B in una squadra di vertice mi si addiceva di più, perché mi consentiva di mettere in mostra le mie qualità da attaccante.
Altra tappa: 9 settembre 1990. Il “tuo” Lecce ospita il Napoli campione d’Italia e tu giochi 23 minuti, entrando in campo al posto di Pedro Pasculli e affrontando così Diego Armando Maradona. Che calcio era quello?
Un calcio in cui gli stranieri erano pochi e tutti di altissima qualità. Paragonarli a quelli di oggi è quasi impossibile: ce n’erano al massimo due o tre per squadra, ma erano scelti con grande attenzione, e si vedeva. A onor del vero, però, stava già iniziando una sorta di degenerazione che portò poi spesso i dirigenti a preferire gli stranieri anche se non sempre erano più forti. Io, ad esempio, a Lecce fui sostituito da uno di questi e dopo un anno un dirigente salentino mi contattò per dirmi che si era pentito: con quel cambio aveva perso qualità e… anche qualche Lira (ride, ndr).
Oggi è più difficile emergere nel calcio dei grandi?
Non credo sia più difficile, sono solo cambiati alcuni aspetti mentali e questi incidono. Ad esempio, io a tanti giovani ho consigliato di fare la gavetta che ho fatto io. Sentirsi arrivati o pretendere subito di giocare nelle grandi squadre è un gravissimo errore. Bisogna avere l’umiltà di fare un passo alla volta e di capire che è proprio faticando nei campi di provincia che si può crescere, arrivando in alto.
Tirando le somme, meglio la carriera da calciatore o quella da dirigente?
Sono due mondi diversi, ma in questa “nuova vita” al Fossano mi trovo molto bene. Tutto è iniziato dalla chiamata del mio grande amico Gianfranco Bessone, che non potevo rifiutare e che credo abbia portato a cinque anni di grande crescita e di risultati importanti. Si può, però, fare ancora meglio, e io penso già a cosa si potrà migliorare nel prossimo futuro. Una cosa la posso dare per certa: preferirei cento volte parlare dei buoni risultati dei miei giocatori che non del mio passato nel grande calcio (ride, ndr).
c.c.
Il servizio completo su La Fedeltà di mercoledì 3 marzo 2021