Il virus Covid-19 sembra portare con sé un altro virus, quello che potrebbe contaminare le Istituzioni Ue, anch’esse alla ricerca di un “vaccino” per salvare se stesse e il futuro dell’Europa. Anche in questo caso si potrebbe parlare di “variante inglese”, quella che ha fatto dire - e non solo ai nazional-populisti sopravvissuti - che nella guerra dei vaccini se la sta cavando meglio chi si è liberato dall’Ue, come il Regno Unito, o chi cerca di allentarne i vincoli, come hanno fatto più recentemente Austria e Danimarca, e non sono i soli.
La storia della “guerra dei vaccini” per l’Unione europea andrebbe raccontata dall’inizio, dalla sorpresa iniziale causata dal virus, dalla reazione tardiva dei Paesi europei, dalla difficoltà dell’Ue ad intervenire a causa delle scarse competenze in materia di salute pubblica, ma anche dall’inedito coraggio di sviluppare una sorprendente “potenza di fuoco” finanziaria, con la Banca centrale europea, ed economica con l’adozione del Recovery Fund dotato di 750 miliardi di euro, aggiuntivi rispetto ai 1100 miliardi del bilancio europeo 2021-2027.
Questo lo scenario nel quale collocare oggi le difficoltà dell’Ue per la fornitura centralizzata dei vaccini ai suoi Paesi membri. Un compito straordinario, affidatole in una congiuntura straordinaria, ma purtroppo con le tortuose procedure ordinarie della burocrazia comunitaria e con la tendenza dei Paesi membri a smarcarsi da decisioni comuni, qualcuno giocando in proprio.
A questo proposito non è senza significato che a uscire di squadra si siano segnalati i Paesi del Gruppo di Visegrad (Ungheria e Polonia in testa, con Slovacchia e Repubblica ceca) in compagnia dell’Austria e i Paesi autodefinitisi “frugali”, come la Danimarca, quelli restii a mettere in campo la solidarietà europea per la lotta alla pandemia.
Ad oggi i risultati di questa gazzarra sono pesanti e le Istituzioni europee hanno le loro responsabilità, in particolare il Consiglio dei ministri che non è stato capace di contrastare le rotture interne, e la Commissione che si è mossa troppo lentamente, negoziando forniture insufficienti, con ritardi nelle conclusioni dei contratti, nel tentativo di ridurre i costi non indifferenti dell’operazione.
A fronte di questi risultati tristemente negativi è opportuno trarre qualche lezione per l’Ue e per i Paesi membri. Questi ultimi hanno ancora dato prova di essere lontani, nonostante l’emergenza, da una sovranità europea, quella di un potere federale solo in grado di rispondere a una pandemia di queste dimensioni.
Ma è anche tutta la “macchina comunitaria” che va sottoposta adesso a una “manutenzione straordinaria” che consenta di rivedere le regole del gioco - particolarmente pericoloso, in questo caso - e di ridefinire le competenze per meglio chiarire chi fa che cosa nell’Ue: a livello europeo, qualcosa di simile a quello che sarebbe necessario fare anche in Italia, tra potere centrale e Regioni.
Dovremmo tutti imparare che vi sono problemi le cui dimensioni impongono livelli diversi nella ricerca di soluzioni e per la gestione di decisioni da parte di chi governa, da Torino a Roma fino a Bruxelles.
Che cos’altro debbono ancora sopportare i cittadini europei, presi in tenaglia tra una retorica europeista (persino da parte della Lega, in attesa di Fratelli d’Italia) e il “liberi tutti” dei governi nazionali, quando non addirittura dagli azzardi dei poteri locali? Se nemmeno il Covid-19 ci convince che l’Ue ha bisogno urgente di vaccini contro nazionalismi striscianti, e nemmeno tanto, quando mai lo capiremo?
Franco Chittolina