La lotta ai tumori al tempo del Coronavirus

ospedale carle cuneo

Un anno fa, nel corso della prima ondata del corona virus, la struttura di Oncologia dell’ospedale Santa Croce Carle di Cuneo attraversò un momento particolarmente difficile: un terzo dei medici oncologi risultò positivo al tampone del Covid-19; il reparto, costretto a funzionare a ranghi ridotti, da due mesi era anche senza primario: a gennaio era infatti andato in pensione il primario Marco Merlano, 66 anni, in servizio dal ’97. Fece notizia la sua decisione di tornare in reparto, come medico, a dare una mano ai colleghi.
Le attività subirono necessariamente una riduzione: alcune terapie somministrate in day hospital vennero rinviate, le visite di controllo furono limitati al minimo dopo un triage telefonico infermieristico e anche l’accesso al Cas (Centro accoglienza e servizi) subì un rallentamento.
A settembre è entrato in servizio il nuovo primario, Gianmauro Numico, 53 anni, originario di Bra e residente a Cuneo.
Prima di approdare a Cuneo aveva diretto la struttura di Aosta e successivamente quella di Alessandria.
Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata sulla struttura di Oncologia dell’ospedale Santa Croce Carle di Cuneo e su alcune questioni più generali inerenti la salute dei cittadini e le possibili risposte del sistema sanitario.
Dall'intervista è emerso come oggi la struttura di Oncologia lavori a pieno regime; sono stati riorganizzati gli ambulatori e il sistema di prenotazione degli accertamenti necessari per le visite di controllo.

Numico primario Oncologia Cuneo
Numico Gianmauro

Come ha influito la pandemia sulla vostra attività e sui pazienti?
Si sono registrate situazioni molto diverse tra la prima e la seconda ondata. Io ho vissuto l’inizio della pandemia ad Alessandria. In quell’ospedale - come ovunque – la struttura di Oncologia non è riuscita a garantire i servizi: si sono ridotti fortemente i numeri delle attività, delle visite, dei ricoveri… Molti oncologi andarono a lavorare nei reparti covid riducendo così i ricoveri nei reparti di oncologia. Del resto i pazienti non si presentavano più neppure al Pronto soccorso per il timore dei contagi.
Nel corso della seconda ondata – che ho vissuto a Cuneo - eravamo più preparati; a livello generale fu data l’indicazione di dare priorità alle attività in ambito ematologico e oncologico. Abbiamo ridotto l’attività formativa, le ferie e abbiamo così potuto mantenere tutte le attività destinando comunque due medici - da settembre a dicembre, 24 ore su 24 - ai reparti covid.

Un impegno notevole.
Una bella esperienza, molto utile. Il covid ci ha fatto fare un salto culturale importante: gli ospedali hanno sempre avuto un’organizzazione verticale piuttosto rigida, con confini molto netti e invalicabili tra i reparti, ognuno con i “suoi” letti. Il covid ci ha insegnato che occorre essere più flessibili; che la flessibilità è una risorsa importante. Ci stiamo abituando ad aprire e chiudere reparti, aumentare e ridurre letti. Questo per noi è un grande esercizio di buona organizzazione. Non servono più letti, ma serve saperli “convertire”, quando necessario. Solo in questo modo il nostro sistema regge e può continuare ad essere un sistema di qualità e gratuito per tutti.

Quali sono le prime questioni che ha affrontato quando è arrivato a Cuneo?
Ho cercato di riorganizzare gli ambulatori per ridurre i tempi di attesa dei pazienti e consentire ai medici di lavorare meglio. L’attività oncologica prevede un numero di visite molto elevato: noi seguiamo la storia di ogni paziente, con visite di controllo frequenti che possono andare avanti anni. La riorganizzazione ha comportato anche una distribuzione diversa degli ambulatori con la dotazione di nuovi spazi e una diversa distribuzione degli orari. La situazione attuale non è ancora definitiva ma si cominciano a intravvedere i risultati.

È cambiato anche il sistema di prenotazione. Ora è più snello.
Sì, i nostri pazienti dovevano rivolgersi al Cup regionale (Centro unico di prenotazione) che, ovviamente, fissava gli appuntamenti sulla base del criterio temporale, trascurando l’esigenza di continuità tipico delle oncologie. Questo ha creato problemi enormi, non solo ai pazienti ma anche ai medici, per la difficoltà di sincronizzare gli accertamenti con le visite di controllo. Quando ci siamo resi conto di questi disguidi abbiamo chiesto di poter prenotare direttamente noi le Tac; a breve ci occuperemo anche delle Risonanze magnetiche e di altri esami strumentali. È un modo per sollevare i pazienti e le loro famiglie di un peso burocratico che, in certi frangenti, diventa insostenibile, perché aggiunge ansia in una situazione già molto complicata.

Come giudica la collocazione di Oncologia al Carle: un valore aggiunto o un limite?
Dal punto di vista logistico è poco funzionale. L’idea era di organizzare le Medicine in questa struttura e nel trasferimento vennero compresi anche i posti letto di Oncologia. La nostra, tuttavia, è una specialità che si avvicina più a quella chirurgica che a quella medica;. E non ci aiuta la difficoltà di interazione con gli altri specialisti. I pazienti oncologici richiedono accertamenti e trattamenti complessi, che ci costringono a continui trasferimenti al Santa Croce. In prospettiva il problema si potrà risolvere con la realizzazione dell’ospedale unico.

La pandemia ha fatto emergere alcune criticità del sistema sanitario, in particolare un eccessivo impoverimento del territorio causato – si dice - da una visione “ospedalocentrica”. Ritiene che questo riguardi anche l’Oncologia?
Lo slogan “Meno ospedale più territorio” non tiene conto della realtà. Gli ospedali si sono già ridotti molto come numero di posti letto perché si sono ridotte le degenze; si ricorre all’ospedale ormai soltanto per l’alta complessità e per l’acuzie. Disinvestire sugli ospedali significherebbe ridurne l’efficienza a danno della salute dei cittadini. L’Oncologia ne è la dimostrazione. I momenti decisivi del percorso di cura si vivono in ospedale. Poi c’è un percorso, spesso molto lungo, al domicilio, che è reso possibile proprio grazie a quella svolta. Per questo è importante che l’ospedale sia particolarmente attrezzato ed efficiente. L’investimento sul territorio è sacrosanto ma non a danno dell’ospedale.
Dobbiamo trovare un equilibrio tra ospedale e territorio; il covid ce lo ha insegnato. Se non ci sono servizi sul territorio, tutto si riversa sull’ospedale e le strutture ospedaliere non reggono; viceversa alcune condizioni devono poter contare su ospedali attrezzati e dotati di tutte le competenze necessarie.

Lei sostiene che non sempre sia meglio “morire a casa”. Un’idea controcorrente.
Oggi si tende ad assecondare il desiderio di “morire a casa”, ritenendo che sia comunque sempre meglio morire nella propria casa, tra i propri affetti. Io sostengo che non sempre questo è possibile: la morte è un evento complesso, delicato; non è detto che lo si possa sempre gestire a casa. Tant’è che nei Paesi del Nord Europa in cui sono maggiormente sviluppate le reti territoriali e la domiciliarità, si stanno rendendo conto che non è possibile gestire sempre a casa il fine vita. E si ritorna agli ospedali. Certo, l’ospedale deve essere un posto, accogliente, in grado di gestire questa fase della vita al meglio per il paziente e per il suo nucleo familiare.

Quale rapporto c’è tra la vostra struttura e il dipartimento di Cure palliative?
Abbiamo un rapporto molto stretto e di grande collaborazione professionale: i medici delle Cure palliative vengono in ospedale due volte la settimana e valutiamo insieme i casi da seguire, prendendo in considerazione sia i pazienti ricoverati che quelli ambulatoriali.
La struttura di Cure palliative svolge un servizio essenziale, ponendosi come un ponte tra l’ospedale e il medico di famiglia – anche questa una figura molto importante nella gestione della fase terminale della malattia. Si tratta di un servizio irrinunciabile per la maggior parte dei pazienti ma anche reversibile: non va visto come un percorso unidirezionale.
Il nostro modello di cure palliative inizialmente era basato su un modello “sequenziale”, che intende le cure palliative come un servizio che interviene esclusivamentein fase terminale. Al contrario le cure palliative sono molto più efficaci tanto più precocemente intervengono, a volte quando ancora sono in corso le terapie attive.

Quale rapporto ha la vostra struttura con i Centri specializzati e i Centri di ricerca sul cancro?
Noi lavoriamo nell’ambito di una rete oncologica del Piemonte che comprende i Centri di riferimento (strutture come la nostra), Centri che si occupano dell’oncologia di prossimità e i Centri specializzati: la gran parte della casistica in ambito oncologico può trovare risposta nell’ambito della rete regionale.
Infine ci sono i Centri di ricerca. La ricerca clinica costituisce un’opportunità per il paziente perché consente la sperimentazione di nuovi farmaci o di procedure innovative. Ogni Centro di ricerca porta avanti particolari studi, che noi conosciamo e a cui facciamo riferimento quando necessario, inviando i pazienti..

Quando si scopre l’insorgenza di un tumore, il primo pensiero è di cercare il miglior ospedale o il miglior specialista, anche a costo di doversi spostare in altre regioni. Come si pone la sua struttura di fronte a questa esigenza?
È normale che le persone si attivino alla ricerca del miglior ospedale o il miglior specialista; non ci si ferma a consultare un unico interlocutore quando si deve acquistare l’automobile, a maggior ragione è comprensibile che ci si preoccupi di cercare il meglio quando si tratta della propria salute. Noi medici non dobbiamo opporci a questo; si tratta di una reazione psicologica del tutto comprensibile. C’è poi un dato oggettivo, che ha a che fare con la concentrazione della casistica. Gli ospedali che trattano un maggior numero di casi hanno una maggior probabilità di migliorare la loro performance. Questo vale in particolare per l’attività chirurgica. Un chirurgo che interviene centinaia di volte per risolvere una determinata patologia, avrà senz’altro qualche chance in più di chi la affronta raramente. Per alcuni tumori sappiamo che il volume di attività ha un impatto sulla mortalità dei pazienti. Per questo ha senso il processo di progressiva concentrazione delle procedure.. La rete oncologica è stata costruita per dare a tutti i cittadini piemontesi la possibilità di accedere ai migliori centri di cura. Saremmo disonesti se volessimo pretendere che il singolo ospedale faccia tutto.
Tuttavia io, come responsabile di un servizio pubblico, devo pensare che la gran parte dei cittadini oggi non si può permettere di girare, raccogliere pareri, consulti. Io devo offrire a queste persone la stessa garanzia di essere curate che hanno coloro che possono rivolgersi a un istituto specializzato. Questo è l’obiettivo a cui lavoro e per cui sento la responsabilità di far crescere questa struttura.
Mi rendo conto che noi, come struttura pubblica, garantiamo una serie di servizi anche molto onerosi (i farmaci che eroghiamo gratuitamente hanno dei costi elevatissimi) ma anche i nostri pazienti si accollano un costo elevato: quando si ha un paziente oncologico in casa, l’investimento, anche in risorse economiche, è molto pesante: c’è chi deve lasciare il lavoro per fare assistenza, c’è il costo dei trasporti, i presidi sanitari, i farmaci non mutuabili… Per questo sento molto la responsabilità di salvaguardare le prerogative del sistema sanitario pubblico: dobbiamo essere nelle condizioni di fare il meglio per chi non si può permettere la sanità privata.