Franco Lerda una vita per il pallone tra campo e panchina

Dopo 15 anni da allenatore ho un bilancio positivo e certamente molto formativo

Torino Calcio «Primavera» Torneo Di Viareggio 1985
Franco Lerda (il secondo in ginocchio da sinistra) con la Primavera del Torino

Una carriera dedicata al pallone, tra il campo, vestendo molte nobili maglie italiane, e la panchina. Scindere il racconto della vita di Franco Lerda, fossanese classe 1967, dalla descrizione delle sue vicende “pallonare” è praticamente impossibile. Abbiamo provato a rivivere alcune tappe del suo lungo percorso, in un dialogo che spazia tra ricordi ed impressioni sul calcio di oggi.

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Franco Lerda con il presidente del Partizani Tirana

Franco, ti ricordi come è iniziato?
Mi ricordo sì, anche se sono passati un po’ di anni (ride, ndr). Al Torino giocai nel settore giovanile, fino al debutto in prima squadra. La “prima” ufficiale fu in Coppa Uefa, come sostituto di Júnior, ma ho ben nitida nella mente soprattutto la prima volta in Serie A, contro il Pisa. Momenti che non si dimenticano facilmente.
A Torino giocasti due stagioni da “giovane promessa”, togliendoti anche lo sfizio di segnare nella massima serie. Te lo ricordi?
Sì, contro l’Empoli. Era l’autunno del 1986. Comi servì Júnior, che fu bravo a girarsi in poco spazio e a crossare dalla sinistra, trovandomi a centro area. Io fui altrettanto lucido a insaccare di testa, prima di esplodere di gioia.
La tua prima tappa lontano da casa fu a Messina, nel 1987/1988. Lo sai che la figurina Panini di quell’anno ti ritrae insieme ad un giovanissimo Salvatore Schillaci?
Devo essere sincero, non lo sapevo. Fu una bella esperienza, quella. Totò è stato uno dei tanti grandi campioni con cui ho giocato: all’epoca era ancora molto giovane, ma alcune sue caratteristiche si intravedevano già.
Se continuiamo a sfogliare questo album immaginario, ti troviamo anni dopo in un’altra figurina iconica: con la maglia del Brescia, al fianco di Gheorghe Hagi, nella stagione 1995/1996. È stato lui il tuo più forte compagno di squadra?
Credo sia impossibile scegliere. Gheorghe aveva qualità uniche e una tecnica pazzesca, ma negli anni ho avuto la fortuna di condividere lo spogliatoio anche con altri grandissimi. Ad esempio, se ripenso alla stagione a Napoli ne ricordo molti.
A proposito, che Napoli era quello?
Un Napoli che cercava di ritrovare la sua giusta dimensione dopo aver salutato due mostri sacri come Maradona e Ferlaino. In campo, però, i campioni non mancavano: un giovane Cannavaro, Taglialatela, Buso, Rincon, Corini, Boghossian, solo per citarne alcuni. C’era, soprattutto, una piazza unica: esigente, calorosa, ma anche molto competente.
Dopo 18 anni di onorata carriera, conclusa in provincia, scegliesti il percorso da allenatore, che iniziò a Saluzzo, a vent’anni esatti dal tuo debutto da calciatore. Che bilancio dai a questi tuoi primi 15 anni da tecnico?
Un bilancio complessivamente positivo e certamente molto formativo. Io tendo a cercare l’insegnamento da ogni esperienza, sia essa positiva o negativa. Da allenatore ho conosciuto molte piazze e ognuna mi ha dato qualcosa di importante, indipendentemente dai successi ottenuti.
Anche l’ultima, al Partizani Tirana, con cui hai vinto la Supercoppa d’Albania nel 2019?
Assolutamente sì, forse anche più delle altre. È stata un’occasione di crescita sia dal punto di vista umano che professionale. Da un lato, ho conosciuto una città importante, con una cultura e un modo di vivere diversi dai nostri, che mi hanno fatto crescere. Dall’altro, mi sono confrontato con realtà sportive diverse e con approcci calcistici unici, esordendo inoltre nei preliminari di Champions League.
Com’è vissuto il calcio in Albania?
Con la stessa intensità con cui è vissuto in Italia. A differenza nostra, però, il mondo albanese tende ad essere persino più conservatore, quindi a volte è difficile portare delle novità. 
Da Saluzzo a Tirana, la “gavetta” è stata importante. Siccome è un tema ormai di dibattito calcistico, lo chiediamo anche a te: il passato da calciatore professionista è davvero un attestato di competenza per un futuro da allenatore?
A chi me lo chiede, dico sempre che non esiste un’unica chiave interpretativa. Circa quindici anni fa, il caso di Guardiola al Barcellona ha lanciato una moda, poi seguita da molte società con alterne fortune. Questo, secondo me, dimostra come non esista una ricetta vincente. L’unica cosa certa è che il nostro mestiere è dominato da un “mercato” in cui la domanda di allenatori è di molto inferiore all’offerta. Siamo tanti per pochi posti e questo spinge le società ad avere poca pazienza con i più giovani, soprattutto se gli obiettivi sono importanti. Tanti esoneri “prematuri” sono dovuti proprio a questo scenario.
c.c.