Fin dagli anni di Nizza, già lo dicevamo la volta scorsa, don Luigi Craveri è costantemente "attenzionato" dalla Casa Reale come uno tra i più "episcopabili" del clero torinese, non certo in virtù dei suoi natali (che, se nobili, all'epoca potevano rappresentare indiscutibilmente più di un punto a favore) quanto piuttosto per l'eminente dottrina, l'evidente intelligenza e la popolarità di cui è circondato. Mentre conti e baroni fanno inutilmente a gara per annetterlo alla propria corte come consigliere, cappellano o anche solo precettore dei propri rampolli, cominciano ad arrivare proposte quanto mai consistenti e allettanti sul piano umano: nel 1834 il re Carlo Alberto lo propone per la sede vescovile di Alba, ricevendone risposta negativa di cui peraltro il sovrano non sembra risentirsi troppo, se quattro anni dopo, con la morte del vescovo Cirio, ritorna alla carica per offrirgli il vescovado di Susa. Scontato il rifiuto, anche in questo caso, di don Luigi, che si ritiene privo «di quel corredo di sapienza e di santità che si ricercano nel Vescovo, la di cui vita deve essere irreprensibile come ordina l’apostolo Paolo». Infine, nel 1843, sono i cuneesi a farsi avanti nel momento in cui si accorgono di essere senza vescovo, avendo monsignor Salomoni rassegnato le sue dimissioni per entrare in convento. Nel tentativo di essere il più convincenti possibile, i cuneesi cercano una "sponda" politica in un loro delegato e una "sponda" religiosa nel vescovo di Fossano monsignor Tornaforte i quali, bisogna dire, fanno del loro meglio nell'opera di convincimento, ma non hanno miglior fortuna del re nelle precedenti due occasioni. «Io non accetto il Vescovado, perché non essendovi chiamato, questo mi aprirebbe la strada della perdizione», è l'unica variante come motivazione al rifiuto, questa volta addirittura in chiave escatologica, alla quale il vescovo Tornaforte non osa controbattere.
Ormai è risaputo che, ad imitazione del beato Sebastiano Valfrè, don Luigi «ad ogni costo vuol morire semplice sacerdote», infatti anche per portarlo a Fossano il vescovo, pur sicuramente con la complicità della Provvidenza, ha dovuto far uso del richiamo alla santa obbedienza. Nel 1832, infatti il vescovo di Fossano Luigi Fransoni viene nominato Vescovo di Torino e, prevedendo per Fossano un lungo periodo di sede vacante, ne diventa amministratore apostolico, decidendo però di avvalersi in loco di un Vicario generale di assoluta fiducia e indubbia capacità, che faccia le sue veci. La sua attenzione si concentra subito sull’umile parroco di Andezeno, che spedisce a Fossano come Vicario generale e Rettore del seminario, mettendolo di fronte al fatto compiuto. Giunge così nella nostra città una sera d’aprile, alla chetichella, visitando in incognito la cattedrale e trattenendosi in prolungata preghiera, prima di iniziare il mattino dopo ad esercitare le sue funzioni. Pur non essendo “del mestiere” e a dispetto della sua “mancata vocazione” all’episcopato, dà prova di saggia e illuminata amministrazione della diocesi, caratterizzando la sua attività con la puntualità, lo scrupolo e la diligenza. “Ad un’ora determinata si recava alla Curia, esaminava diligentemente le carte e procurava che fossero spedite senza ritardo” e “quando l’affare era intricato si portava le carte a casa e le esaminava ben bene”.
Cura analoga, se non maggiore, riversa nella direzione del seminario, dove “procurava sempre che fossero ben provveduti del cibo secondo la quantità e qualità convenevole, non tollerando grettezze; ed era molto attento che loro non venisse mai a mancare nulla del bisognevole”, cosa che all’epoca non è per niente scontata, tanto più che, da parte sua, don Luigi porta quasi impresse in volto le penitenze e le privazioni cui si sottopone. È solito dire che «per troppo tirar si spezza l'arco» e quindi saggiamente alterna ai normali ritmi di studio e di preghiera i necessari momenti di sollievo e di ricreazione. Con la sua convinzione che «il seminario è scuola di perfezione; coloro che vi entrano non sono ancora perfetti, concediamo loro il tempo e lo diverranno», si sforza "quando riceve qualche lagnanza di non lasciarsi trasportare dalla collera o tenere il broncio alla persona incolpata", e di avere "per massima di soportar i difetti altrui in qualunque modo avesse potuto, persuasissimo come era non esservi in questo mondo persona alcuna senza difetto" e, soprattutto, cosa non consueta per un formatore "non pretendeva di cambiar naturale alle persone". È in questa veste di rettore del seminario che conosce e incide profondamente sulla spiritualità del chierico levaldigese Francesco Ghignetti (morto in concetto di santità e di cui la nostra rubrica già si è interessata), indirizzandolo tra gli Oblati di Maria, cioè là dove egli sarebbe voluto entrare se la Provvidenza non avesse diversamente disposto.
(3 - continua)