Donne e uomini vengono trattati in modo diseguale quando logica e buon senso vorrebbero che il trattamento fosse il medesimo (stipendio a fronte di una stessa prestazione lavorativa, considerazione sociale quando il ruolo è il medesimo) mentre vengono trattati allo stesso modo quando la stessa logica e il buon senso vorrebbero che si tenesse conto delle differenze oggettive. È il caso, per esempio, della Medicina che fatica a tener conto delle differenze biologiche, geneticamente determinate. Con conseguenze a volte anche molto gravi.
Ne abbiamo parlato con Rosita Serra, portavoce delle Donne Democratiche di Cuneo, che alcune settimane fa è intervenuta su questo tema in occasione del convegno “Quale sanità dopo la pandemia” organizzato da “Con più voce”.
Spiegaci cos’è la Medicina di genere?
La Medicina di genere non è una specializzazione a sé, ma è un approccio che riguarda sia il settore medico che quello farmaceutico. Si occupa di riconoscere le differenze di sintomatologia e gravità in molte malattie comuni a uomini e donne e le differenze di risposta alle terapie e di reazione ai farmaci.
Grazie a questo approccio sono state individuate differenze significative?
Molto significative, certo. Si è rilevato, ad esempio, che l’infarto al femminile provoca ansia, dispnea, mal di stomaco; non fitte al petto e al braccio destro come al maschile. L’infarto è la prima causa di morte al femminile perché le stesse pazienti non riconoscono i sintomi come gravi e spesso al Pronto soccorso le pazienti vengono dimesse o non si attribuisce loro il codice appropriato con una perdita di tempo prezioso per salvare vite.
Un’altra differenza è stata rilevata nella diagnosi del cancro al colon; in caso femminile colpisce il tratto ascendente, al maschile il tratto discendente.
Si tratta, come dicevo, di due esempi: i casi in cui si sono rilevate differenze sono molti e significativi.
Cos’ha portato a trascurare queste differenze?
Il fatto che tradizionalmente gli studi sulle malattie che colpiscono uomini e donne – e sui farmaci per curarle fossero condotti quasi esclusivamente sugli uomini e poi applicati alle donne. Nel pensiero e nella pratica medica la donna era considerata come “un piccolo uomo” e l’attenzione alle specificità femminili riguardava solo la questione riproduttiva.
In buona sostanza, i corpi femminili sono sempre stati i grandi esclusi dalla ricerca sulle malattie e dalla sperimentazione dei farmaci.
Solo negli ultimi decenni del Novecento, si comprese e si rilevò che le donne non ricevevano cure adeguate alle proprie caratteristiche, con gravi disuguaglianze e disfunzionalità di trattamento.
Negli ultimi anni è cambiato qualcosa?
Sì, da due anni in Italia è attivo il “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere” , definito dal Ministero della Salute in attuazione della Legge 3/2018, che stabilisce che il Ministero della salute, con l’Istituto Superiore di sanità, ha definito una strategia per la diffusione della medicina di genere. Siamo tra i primi Paesi al mondo con una legge di questo tipo, con tanto di piano attuativo.
Una rivoluzione.
Già, per questo ritengo sia compito di tutto il settore medico, e più in generale della politica sanitaria, di renderlo operativo, anche nelle nostre realtà. Ci sono Regioni come la Toscana che si sono dotate di un responsabile regionale della Medicina di genere. Sempre in Toscana in tutte le Asl sono operativi gruppi di lavoro sul genere e sul dolore nella donna.
E il Piemonte?
Da circa due anni la questione è ferma in Regione. Stiamo sollecitando i nostri Consiglieri regionali, in particolare la consigliera Monica Canalis del Pd, che fa parte della Commissione consigliare regionale sanità. Stiamo anche cercando di sensibilizzare i cittadini rispetto a questa tematica. Nel novembre del 2020, come Conferenza delle Democratiche di Cuneo, abbiamo organizzato un incontro con la presidente del Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, Giovannella Baggio, già docente ordinaria di Medicina di genere all’Università di Padova. Lei stessa ci diceva della importanza di divulgare il tema della medicina di genere non soltanto in ambienti medici, per fare si che diventi di dominio pubblico e dunque se ne favorisca la diffusione.