È comune e diffusa in questi giorni la preoccupazione per la situazione venuta a crearsi in Afghanistan proprio quando pensavamo che gli ultimi venti anni avessero fatto maturare semi stabili di cambiamento. Prima che gli assetti geopolitici sono le condizioni di vita delle persone che destano apprensione e che stanno mettendo in moto una vera mobilitazione in tante parti del mondo, Italia compresa. L’arrivo dei voli militari che realizzano un’operazione definita tecnicamente di “evacuazione” e la conseguente necessità di trovare una prima ed immediata sistemazione per le circa 2500 persone interessate ha portato a cercare – e talora trovare – disponibilità anche da parte di comunità e gruppi ecclesiali. Grazie all’azione di coordinamento del Ministero e delle Prefetture i posti di accoglienza sono stati tutti trovati utilizzando le reti del Sistema Accoglienza Integrazione (SIA) e dei Centri Accoglienza Straordinaria (CAS) già attive sul territorio e di cui fanno parte anche alcune realtà del mondo ecclesiale, piemontese compreso. Non c’è, dunque, una urgenza per trovare subito nuove sedi. Abbiamo il tempo per costruire e coordinare il meglio possibile le disponibilità che le comunità cristiane possono mettere in gioco. Il tempo consente anche di poter coordinare le iniziative a livello di ogni diocesi, soprattutto interloquendo con Migrantes e Caritas delle singole Chiese.
In effetti i termini del discorso potrebbero aggravarsi nei prossimi mesi quando arriveranno alle nostre frontiere nuovi gruppi di profughi o richiedenti asilo anche provenienti dall’Afghanistan. Il ponte aereo termina con la fine della presenza americana a Kabul. Da quel momento è pensabile che una parte della popolazione cercherà di uscire dal paese verso punti di raccolta in Iran, Pakistan, Turchia. Qualcuno prenderà la strada della rotta balcanica dove sono stati bloccati altri uomini nei mesi scorsi anche per lungo tempo. Se sarà possibile mettere in atto i cosiddetti corridoi umanitari questi partiranno da uno dei paesi di prima accoglienza e non dall’Afghanistan direttamente. Le persone interessate a questa fase saranno certamente più povere, meno tutelate, più esposte al traffico di esseri umani. E, arrivando in Italia, entreranno nella procedura usuale di richiesta di accoglienza, senza avere canali preferenziali. Per dare risposte di accoglienza di qualità in allora sarà presumibilmente necessario aumentare il numero di posti disponibili e la capacità di farsi carico delle persone per dare loro pieno inserimento e prospettive di futuro. Serviranno case, ma anche e soprattutto relazioni, sostegno, accompagnamento, inserimento lavorativo, sostegno alla mobilità verso l’Europa. E questo non solo per chi proviene dal paese asiatico oggi sotto i riflettori. Stanno arrivando sulle coste del sud numeri importanti di persone in fuga da altre aree di crisi, e continuano anche i respingimenti alle frontiere a nord del nostro paese con la conseguente permanenza nelle nostre valli alpine di gruppi di persone sempre più numerosi.
È bene che le comunità territoriali, cristiane soprattutto, inizino fin da subito a muoversi e progettare su questa prospettiva di medio termine, senza concentrarsi ed agire esclusivamente sui primi arrivi degli scorsi giorni. I contatti continui con le Prefetture consentiranno di monitorare i bisogni, ma dovremo essere capaci di farci trovare pronti, senza improvvisazioni e senza fughe individualistiche. Occorre rafforzare la rete sia per non prestare il fianco ad una deleteria supplenza, sia per dare efficacia ad una azione complessa e delicata perché inerente alla vita delle persone. Serve dare del tempo individuale e comunitario alla preghiera e all’approfondimento dei vari elementi del fenomeno, senza lasciarci tentare dalle facili semplificazioni o dall’immediata emozione.
Caritas e Migrantes si stanno proponendo per chiedere in ogni sede opportuna l’attivazione di forme temporanee di protezione per gli afghani già presenti in Italia che rischiano di essere rimandati a casa: in Europa sono a rischio di rientro in 280 mila, di cui 60 mila donne. Viene anche chiesta l’interruzione dei respingimenti in frontiera sulla rotta balcanica per evitare un altro inverno come quello disumano vissuto nel 2020. Un ultimo consiglio, che è anche una richiesta: non intraprendiamo progetti né preventiviamo attività – ivi comprese le raccolte di generi primari – senza prima esserci coordinati con la rete Caritas e Migrantes. Insieme saremo più efficaci e meglio parole di Vangelo.
Pierluigi Dovis, Delegato regionale Caritas
Sergio Durando, Responsabile regionale Migrantes