“No time to die” – Drive my car”

No time to die

NO TIME TO DIE
di Cary Joji Fukunaga; con Daniel Craig, Léa Seydoux, Ralph Fiennes, Christoph Waltz, Rami Malek Naomie Harris, Ben Whishaw, Rory Kinnear, Lashana Lynch, Ana de Armas.
Attesissimo, più volte fermato ad un passo dall’uscita tanto da trasformare il rinvio in un evento mediatico in sé, il 25° episodio della saga bondiana è finalmente sbarcato sugli schermi italiani (e mondiali) schizzando immediatamente in testa al botteghino e rinfrancando, almeno un poco, le esangui casse delle sale cinematografiche lungamente provate da due anni di pandemia. Quinto film con Daniel Craig protagonista (detto per inciso uno dei migliori Bond di sempre, a dispetto di quella parte di pubblico che al suo esordio nel 2006 con “Casinò Royale” si schierò contro l’attore inglese creando addirittura un sito - craignotbond.com - salvo poi doversi presto ricredere) e annunciatissimo canto d’addio dell’attore ai panni del personaggio creato da Ian Fleming, “No time to die” è, senza tanti giri di parole, un action-movie complessivamente modesto e il vulnus principale è costituito da una sceneggiatura abborracciata e poco convincente funestata dal tratteggio di personaggi che in alcuni casi risultano ancora meno credibili dell’impianto generale del film.
“No time to die” si apre con Bond che si gode una meritata vacanza in Giamaica, sole, pesca subacquea e tanto relax, quando il suo aiuto viene richiesto da Felix Leiter, un vecchio amico ed agente della Cia. Pensionato dai servizi segreti di sua maestà con scarsa riconoscenza (lo credevano morto, o speravano che lo fosse) Bond deciderà di aiutare Leiter mettendosi alla ricerca di uno scienziato pazzo e di una terribile arma biologica, dando il via ad una sarabanda che porterà Bond e accoliti dall’Italia alla Norvegia, alle isole del nord Giappone e attraverso un paio di flashback ci consentirà anche di comprendere alcune situazioni del recente passato di 007. Decisamente lento e macchinoso nel portare lo spettatore al cuore drammatico della storia, al netto di alcune avvincenti scene di inseguimento tipicamente bondiane - la corsa tra le vie e le case di una splendida Matera, la fuga tra i boschi della Norvegia - e la sequenza iniziale sull’infanzia di Madeleine/ Léa Seydoux, il film stenta a decollare per carenza di epos e struttura drammatica, mette in scena due villain, che sono decisamente troppi - Christoph Waltz e Rami Malek - ma che, paradossalmente, insieme non ne fanno nemmeno uno vero e Ralph Fiennes è un M così sbiadito da far rimpiangere anche il solo sguardo di Judi Dench. Il film si chiude con la battuta di Madeleine: “Ti racconto una storia, è la storia di un uomo. Il suo nome è Bond, James Bond”, ma la domanda vera è se ci sarà ancora James Bond.

Drive my car
DRIVE MY CAR
di Ryûsuke Hamaguchi; con Hidetoshi Nishijima, Toko Miura, Reika Kirishima, Masaki Okada, Perry Dizon.
Liberamente tratto da un racconto di Murakami Haruki presente nella raccolta “Uomini senza donne” (edito in Italia da Einaudi) e presentato in Concorso a Cannes 2021 dove è stato premiato per la Miglior Sceneggiatura, “Drive my car” è film elegante e profondo, un’alchimia di silenzi e parole in grado di conquistare lo spettatore attraverso una lentezza leggera che avvolge come le spire di fumo di un sigaro.
Yûsuke Kafuku è un attore di teatro e regista e da poco è stato travolto da una grande tragedia personale, infatti un’emorragia cerebrale gli ha portato via l’amatissima moglie Oto. Il lavoro è l’unica medicina in grado di curare l’animo ferito di Kafuku che per questa ragione decide di trasferirsi a Hiroshima per dirigere un singolare laboratorio teatrale dove con una compagnia di attori e attrici che parlano ciascuno la propria lingua - giapponese, cinese, ma anche filippino e il linguaggio dei segni - mette in scena lo “Zio Vanja” di Cechov. Soffrendo di glaucoma ad un occhio, Kafuku è impossibilitato a guidare e così viene portato in giro per la città dalla giovane Misaki, autista tanto silenziosa quanto acuta e perspicace e se inizialmente tra i due il rapporto è piuttosto conflittuale, lentamente troveranno il modo di aprirsi e confrontarsi. Due sono i poli narrativi del film, il teatro con gli attori, le prove dello spettacolo, le tensioni del palcoscenico e poi l’abitacolo dell’auto rossa di Kafuku, condiviso, inizialmente a fatica, con Misaki. All’interno di questi spazi Kafuku sarà costretto a mettersi in gioco, imparerà ad aprirsi ed ascoltare gli altri, a guardare il mondo con occhi diversi - lui che, metaforicamente soffre di mal d’occhi - per tentare di ritrovare finalmente se stesso. Da non perdere.